Era il 2008 e la grande crisi stava per abbattersi sull’economia mondiale. Uno dei primi segnali fu la speculazione sul prezzo dei generi alimentari, che in Africa provocò il brusco peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone. Ci furono in diversi Paesi vere sommosse, corredato dall’assalto ai forni e da morti per le strade. Nessuno, allora, fece troppo caso a un altro fenomeno: la siccità che aveva colpito il Corno d’Africa, in particolare la Somalia.
L’emergenza di oggi, quella che è stata richiamata anche dal Papa nell’Angelus, è figlia di quella indifferenza. E’ un’emergenza ampiamente annunciata. Da allora la stagione secca si è ripetuta, le sue conseguenze si sono estese anche a Kenya, Etiopia, Sudan e Gibuti e ora assistiamo a un film che si ripete con angosciante frequenza: 11 milioni di africani rischiano la morte per fame; 2 milioni sono bambini sotto i 5 anni d’età; le autorità dell’Onu dichiarano che si tratta della “peggiore catastrofe umanitaria della storia” e intanto lamentano che i fondi necessari e promessi (1 miliardo e mezzo di dollari) stentano ad arrivare (siamo sì e no alla metà).
I Paesi africani, per parte loro, non sembrano troppo inclini a mobilitarsi. Quando si tratta della Libia o di crisi politiche sono svelti a chiedere “soluzioni africane per i problemi africani”, ma se bisogna affrontare una crisi umanitaria sono ben felici di lasciar fare all’Occidente. Il Sudafrica ha 40 mila tonnellate di grano in surplus, ammassate nei magazzini, ma si guarda bene dall’inviarne una parte al Corno d’Africa. Il Kenya fa la sua parte (ha messo a disposizione il campo profughi di Dadaab, dove si sono già raccolte 400 mila persone, e sta aprendo un altro campo da 90 mila posti), anche perché direttamente coinvolto dalla siccità e dalla carestia, ma dove sono i Paesi africani che pure si erano mossi per aiutare Haiti e persino il ben più florido Giappone dopo Fukushima? Dadaab, intanto, è già diventato il terzo centro abitato (dopo la capitale Nairobi e il porto di Monbasa) del Kenya, preparando così un altro problema e un’altra crisi.
C’entra la politica, ovviamente. In Somalia, epicentro della siccità e della crisi alimentare, prosegue da anni la lotta tra il Governo provvisorio e le milizie islamiche shabab, che controllano la capitale Mogadiscio. Poiché l’Occidente sostiene il Governo, le Corti islamiche hanno a lungo vietato l’ingresso nel Paese alle organizzazioni umanitarie. Una rappresaglia idiota che ha ferito solo i somali e che ha tagliato fuori dai soccorsi un Paese già agonizzante.
Ma la politica locale, per quanto tragica, non è tutto. Leggete queste parole: ““L’Africa soffre di ricorrenti siccità e carestie… Ma è anche l’unica regione del mondo in cui la quota di produzione di cibo pro capite è diminuita negli ultimi decenni… La dipendenza dell’Africa da approvvigionamenti di cibo esterni al continente sta crescendo a un ritmo allarmante”. Sembrano scitte oggi, invece sono tratte da un Rapporto del Dipartimento di Stato Usa del giugno 1985.
Secondo i dati della Fao, l’Africa importa tuttora il 28% del fabbisogno calorico dei suoi abitanti. In particolare, il 58% del frumento consumato, il 41% del riso e il 54% degli olii di diverso genere. La “bolletta cibo” dell’Africa, che sempre secondo la Fao era nel 1985 di 12,5 miliardi di dollari, nel 2006 aveva già sfondato quota 25 milioni di dollari, ed è da allora ancora cresciuta. Uno sforzo economico che il continente, ancora piagato da enormi sacche di povertà, non può sostenere e che lo espone in modo catastrofico alle speculazioni sui prezzi dei generi alimentari.
E’ fondamentale, dunque, che l’Africa riprenda il cammino verso una maggiore indipendenza. Anche perché gli studi delle Nazioni Unite dimostrano che i prezzi dei generi alimentari sono destinati a rimanere alti almeno per il prossimo decennio a causa degli effetti combinati dell’aumento della popolazione (saremo presto 9 miliardi), dei fenomeni climatici e del costo dell’energia.
Concordo con quello che dici sui Paesi Africani, ma l’Occidente ha le sue belle responsabilità, nel Corno d’Africa ma non solo.
Nel Corno d’Africa i Paesi occidentali non stanno facendo nulla per togliere di mezzo le dittature ( ho l’impressione che le dittature siano considerate cattive solo dove ci sono ricchezze sotto terra).
In Africa per decenni l’Occidente ha predicato che la soluzione era produrre per i mercati del Nord che avrebbero pagato profumatamente: cacao, arachidi, cotone, ecc.
Gli Stati africani hanno seguito i ‘consigli’ (col ricatto del debito era un po’ difficile rifiutare), ma guardacaso quei prodotti si sono deprezzati e non hanno portato i guadagni promessi. Le coltivazioni tradizionali sono state però dismesse e ora molti Stati non hanno ne alimenti ne soldi per comprarli. Le speculazioni di Borsa stanno facendo il resto.
Caro Enrico,
difficile obiettare alle tue osservazioni. Adesso, poi, il pendolo africano, che oscilla di continuo tra neocolonialismo e indipendentismo, punta (almeno per certe zone) verso un legame-dipendenza con la Cina che non sarà senza conseguenze.
Ciao, a presto
Fulvio