SIRIA, LIBANO, ISRAELE, UNA BOMBA SOLA

Sono passato diverse volte sul tratto di autostrada tra Beirut e Sidone dove un’esplosione ha fatto saltare il blindato su cui viaggivano 6 soldati italiani del contingente Unifil di stanza in Libano. Una strada piatta, con il mare da un lato e il terreno brullo dall’altro. Impossibile piazzare una carica esplosiva, senza farsi notare, se non si è del posto. Messo in chiaro questo, due domande: perché colpire gli italiani? E perché colpire adesso in Libano?

Caschi blu del contingente Unifil nel Sud del Libano.

La prima risposta è facile: gli italiani (1.780 soldati; il 10 maggio c’è stato il passaggio di consegne falla Brigata di cavalleria Pozzuolo del Friuli alla Brigata meccanizzata Aosta) hanno svolto fin qui un ottimo lavoro, con l’umanità e il pragmatismo che li contraddistingue. Non sono entrati in urto con le milizie di Hezbollah, che controllano il Sud del Libano, ma nemmeno hanno permesso bravate lungo il confine con Israele. L’Italia, d’altra parte, ha un interesse strategico nel Mediterraneo ma non è tra i Paesi occidentali (Francia o Usa, per dire) che in passato si sono immischiati nelle faccende libanesi. Insomma: colpire gli italiani vuol dire ottenere il massimo effetto con il minimo dei rischi.

Più duro affrontare la seconda domanda: perché cercare di far saltare il Libano proprio adesso? A chi può convenire, con il Medio Orente in subbuglio? Il Libano è da sempre simile a quell’insetto che, secondo le leggi della fisica, non potrebbe volare ma intanto vola. Paese instabile, diviso per fazioni, sempre in guerra con Israele, da quattro mesi senza Governo e con pochissime prospettive di averne uno a breve termine. Eppure la sua economia è cresciuta a una media dell’8% negli ultimi anni, nel 2010 ha avuto 2 milioni e 200 mila turisti (più 17% sul 2009, incassi per 8 miliardi di dollari), le sue banche prosperano (la prima del Paese, Audi Bank, ha incrementato i profitti del 22% nel 2010), a Beirut gli appartamenti da 8 mila dollari a metro quadrato vanno via come i panini. Lo direste che il Libano possiede le seconde riserve d’oro pro capite del mondo?

Un tank israeliano al confine con il Libano.

L’esistenza di un Libano comunque prospero, e guarda caso oggi assai più stabile di quasi tutti gli altri Paesi della regione, dà fastidio a molti. Ma questa è ancora storia. Oggi è quasi impossibile scindere le sorti della Siria, del Libano e di Israele. In Siria il presidente Bashar Al Assad (e la minoranza alawita, 15% della popolazione, che prospera nel suo potere) è in crisi e deve ricorrere al pugno di ferro per soffocare la protesta. Ma non sembra che i suoi nemici storici, Usa e Israele in primo luogo, stia facendo di tutto per aiutarlo a cadere. Anzi: lo spettro di una frammentazione della Siria multietnica e multireligiosa, magari a favore dell’Iran, li spaventa assai più del regime di Assad. E la Turchia non è allegra alla prospettiva che tale eventualità dia altro spazio all’autonomismo dei curdi.

Il Libano, con il ruolo cruciale che in esso gioca Hezbollah, è oggettivamente un sostegno per Assad. E ha già accolto circa 30 mila siriani che hanno passato il confine per sfuggire alle violenze. Per destabilizzare il Libano, e togliere la stampella ad Assad, il mezzo più facile e sicuro è coinvolgerlo in un conflitto con Israele. In caso di guerra gli Usa non potrebbero che schierarsi con Gerusalemme. Ma una crisi armata al confine Sud del Libano, cioè proprio dove oggi hanno cercato di far saltare i soldati italiani, sarebbe oggi un bel disastro anche per Israele, che tenta con tutte le sue forze di tenersi al riparo dalle attuali convulsioni del Medio Oriente.

Conclusione: forse non sbaglia chi punta il dito verso quelle frange del movimento palestinese, annidate nei campi profughi e affascinate dal verbo di Al Qaeda, che di tanto in tanto escono allo scoperto.  Nel 2007 fu il campo di Nahr al Barid, poco a Nord di Tripoli. Ero là e ci volle l’esercito libanese per soffocare quella specie di insurrezione. Anche nei pressi del luogo dell’attentato contro i nostri soldati c’è un grande campo profughi palestinese: Ayn al Hilwe. Solo un caso?

 

 

 

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

Altri articoli sul tema

*

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Top