Il 45% del gas, il 33% del petrolio e il 26% del carbone. Centesimo più centesimo meno, questo è quanto importiamo dalla Russia in campo energetico. Questa dipendenza europea è da anni al centro di un complicato dibattitto industriale e politico. Si sa che agli Usa questa situazione non piace; che l’Italia non se ne fa gran preoccupazione (e infatti costruisce con la Russia il gasdotto Blue Stream, secondo una decisione presa al tempo del secondo Governo Prodi e confermata dal quarto Governo Berlusconi); che la Germania la pensa come noi (anzi, ci ha preceduti, mettendosi in società con la Russia per il gasdotto Nord Stream, l’unico già in costruzione); e che l’Unione Europea, muovendosi su una linea per così dire “americana”, ha cercato di ovviare al “problema dipendenza” lanciando il progetto per il gasdotto Nabucco.
Tutta questa gran questione è per certi versi incomprensibile. E’ vero che le aziende e le case europee dipendono dalle forniture russe per per funzionare e scaldarsi. Ma è altrettanto vero che le famiglie e lo Stato russi dipendono dalle esportazioni di gas e petrolio ai Paesi industrializzati (e quindi dai quattrini europei) per tirare avanti e pagare salari e pensioni. E’ un equilibrio che conviene all’Europa e alla Russia,non si vede perché qualcuno dovrebbe violarlo, quindi non si vede bene quale pericolo comporti la presunta “dipendenza”. Si capisce l’irritazione degli Usa, perché dagli affari si può passare anche ad altre intese, ma non è che poi cambi molto.
Ma tant’è. L’Italia non ha alcuna convenienza a investire in Nabucco perché South Stream, oltre a garantire domani forniture importanti, procura già oggi commesse proficue all’Eni e al sistema economico nazionale. Della Germania, con Nord Stream, si può dire altrettanto, aggiungendo che questo gasdotto, che scavalca Polonia, Ucraina e Paesi Baltici passando sotto il mare del Nord, libera anche la Germania da eventuali contenziosi con Paesi con cui non ha rapporti idilliaci.
Resta, appunto, Nabucco, che lungo 3.900 chilometri dovrebbe andare dall’Iraq all’Austria e portare ogni anno 31 miliardi di metri cubi di gas. Costo del progetto: a preventivo, 7,9 miliardi di euro; nella realtà… vedremo tra poco. La Ue ha investito poco meno di 1 miliardo di euro in Nabucco, con 500 milioni cash e con il finanziamento di metà degli studi di fattibilità, affiancandosi così a un corsorzio formato da Rwe (Germania; l’azienda, una sussidiaria della Basf, ha peraltro anche una piccola partecipazione in Blue Stream), Omv (Austria), Mol (Ungheria), Botas (Turchia), Bulgaria Energy Holding (Bulgaria) e Trangaz (Romania).
Purtroppo, Nabucco non parte mai. Dal 2014 delle previsioni si è ormai arrivati al 2017 per l’apertura delle condotte al flusso del gas, con costi che, a causa del rincaro delle materie prime (l’acciaio in primo luogo: qui ce ne vogliono 2 milioni di tonnellate) continuano a crescere. Secondo le più recenti stime, la costruzione richiederebbe ormai 14 miliardi di euro e non è detto che serva. Perché il problema del cosiddetto “gasdotto europeo” è che forse il gasdotto ci sarà, ma non il gas. L’Iraq potrebbe fornirne, ma non ha ancora costruito le condotte per portarlo al confine con la Turchia. L’Egitto… beh, si vedrà. L’Azerbiagian temporeggia in cerca di contratti migliori e intanto non vende. L’Iran avrebbe molto gas ma c’è l’embargo. Il Turkmenistan? E’ disponibile ma da solo non basta.
La vicenda di Nabucco si presta a molte interpretazioni: ecomiche, politiche, strategiche. Nell’essenza, però, rappresenta la vittoria della geografia su quasi tutto il resto. L’uomo, come diceva Einstein, farà sempre ciò che è tecnicamente facile fare. Mentre tende a non fare ciò che è inutilmente complicato e serve, in un settore così delicato per la vita quotidiana come quello dell’energia, più a colpire gli interessi altrui che a difendere e valorizzare i propri.