Ancora una volta, l’undicesima, Medici Senza Frontiere (MSF) pubblica il suo studio sulle crisi dimenticate e ci offre la hit parade dei disastri di cui non ci occupiamo come dovremmo: l’Afghanistan, la Somalia e il Pakistan ai primi tre posti, ma anche la malnutrizione infantile e la cura dell’Aids, che patiscono una carenza di fondi quasi scandalosa; il Sudan, lo Yemen e lo Sri Lanka ma anche le malattie tropicali che affliggono 400 milioni di persone nel mondo. Guerre ed epidemie, insomma, perché una gran parte del pianeta continua a farsi tormentare da quelli che una piccola parte del pianeta ormai considera fantasmi del lontano passato, tipo la peste nera o le invasioni barbariche.
Com’è naturale, il discorso sulle crisi altrui è solo l’altra faccia dei discorso su una crisi nostra, tutta contemporanea e generalizzata: la rinuncia a raccontare il mondo, la spasmodica concentrazione su noi stessi, la passeggiata intorno al campanile e, in molti casi, una vera e sempre meno celata ostilità per l’altro. Che non è solo l’altro di cittadinanza e di colore della pelle che viene a scompaginare l’ordine del nostro paesaggio quotidiano, ma anche l’altro luogo, l’altra cultura, l’altro problema. Una sorta di autarchia psicologica che fa a pugni con la realtà complessiva (parliamo con il mondo, commerciamo con il mondo, mandiamo soldati in tutto il mondo) e con quella particolare (nel 2009, nel nostro Paese, gli occupati italiani sono calati di 527 mila unità e quelli immigrati sono cresciuti di 147 mila) e che pure si diffonde, inesorabile. In Italia come in Francia, in Olanda come in Ungheria.
C’entra la politica, certo. Ma è possibile che abbia tanta influenza sulla nostra psiche una categoria, quella dei politici appunto, che in qualunque sondaggio finisce agli ultimi posti per affidabilità e garanzia? C’è qualcosa di più, ed è l’improvviso allargamento della mappa del pianeta. Non ce ne accorgiamo ma viviamo ancora secondo la mentalità del secolo scorso, quando non avevamo né computer né telefonini (che hanno allargato la mappa mentale) e, al contrario, eravamo ancora divisi da confini quasi impenetrabili che frammentavano la mappa reale. Il 1989 può essere considerato l’anno Mille dell’evo contemporaneo: con la diffusione di massa delle nuove tecnologie (ho visto di persona la Mosca delle tempeste economiche riempirsi di cellulari in poche settimane) e la caduta del Muro di Berlino.
Pochi si sono buttati nel varco: imprenditori, ricercatori, studenti. I più hanno soprattutto temuto le grandi praterie globali e hanno cercato conforto nel tepore del giardino di casa. Non c’è nulla di strano, ed è inutile, se non proprio sciocco, condannare o giudicare con spocchia. Bisogna però chiedersi per quanto tempo un Paese come l’Italia, inserito in tutti i circuiti internazionali che determinano le svolte della politica e i flussi dell’economia, potrà permettersi di dedicare nei Tg cinque volte più spazio al delitto di Garlasco che alla fame nel mondo e quasi seicento volte più spazio al delitto di Perugia che alle malattie tropicali, mai citate nei Tg come risulta dalle rilevazioni dell’Osservatorio di Pavia allegate al rapporto di MSF.
Nessuna malattia, gli affamati nascosti da qualche parte, le guerre che proseguono per conto loro senza disturbare. Mentre, naturalmente, le crisi economiche vanno dove vogliono senza bussare né chiedere permesso. Immaginare di vivere in un mondo così è come credere nel ritorno del mangiadischi, dell’Unione Sovietica e di Torino capitale. Romantico, se vogliamo anche tenero. Ma irrimediabilmente perdente.
Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 22 aprile 2010