L’industria della minestra riscaldata non dorme mai. Così, l’inchiesta di un quotidiano dell’Arabia Saudita che racconta quale enorme deposito di armi sia diventato lo Yemen (20 milioni di abitanti, 60 milioni di fucili, pistole, mitra e bazooka) fa il giro del mondo, con un’attenzione giustificata solo dal fatto che lo Yemen è una delle basi preferite dei miliziani di Al Qaeda.
Altre ragioni per tanto scalpore non possono esservi. Ho sotto gli occhi, in questo momento, un reportage della Bbc che risale al 2002 e comincia così: “Nei bazar appena fuori Sanaa (la capitale del Paese, n.d.r) un compratore di qualche ambizione potrebbe facilmente armare una banda di guerriglieri, se non un piccolo esercito”. In quell’anno, un buon mitra Ak47 (meglio noto come Kalashnikov, dal nome dell’inventore) veniva via per soli 100 dollari. In epoca più recente, ovvero nell’agosto del 2009, le autorità yemenite, come in certi film western, proibirono di girare con armi nella cinta urbana della capitale Sanaa, pena l’arresto. Un editto rapidamente abbandonato per l’impossibilità di farlo rispettare, visto che quasi tutti girano armati, come impone una tradizione “machista” ma plurisecolare. Allora il Governo si decise a spendere milioni di dollari per ricomprare armi dai privati cittadini. Si vide allora il fantasmagorico spettacolo di comuni famiglie che portavano all’ammasso, come se fossero frigoriferi vecchi, intere batterie di lanciamissili e mitragliatrici pesanti antiaerei. Il possesso di un’arma (non solo il coltello ricurvo da portare alla cintura, che ormai fa parte soprattutto del folklore) è così “normale”, nella cultura yemenita, che lo Yemen Armed Violence Assessment ritiene che siano 11 milioni le sole armi “civili”, fucili da caccia e simili.
I tempi non sono più quelli dell’Arabia Felix concupita dalle legioni romane o degli interminabili scontri tribali, ma carboni e fiammelle di guerra civile (Nord contro Sud) e di separatismo (la regione di Aden) ardono con un certo vigore. Il tutto reso ancor più complicato dalla vicinanza della Somalia, sulla terra dominata dai miliziani islamici shabab e nelle acque infestata di pirati e trafficanti di ogni genere. Questa notizia-non notizia, però, ha almeno il pregio di riportare l’attenzione su un problema troppo trascurato dai Governi e dalla pubblica opinione: il commercio, che da legale diventa presto illegale, delle armi di piccolo calibro.
Queste armi (pistole, fucili, mitragliatori) non sono temute come le armi atomiche ma, a differenza di quelle, uccidono davvero e lo fanno ogni giorno. Sono almeno 100 mila l’anno i morti “diretti” (cioè gente
che va in battaglia) provocati da queste armi, ai quali vanno aggiunti almeno altrettanti morti “indiretti” (civili uccisi per sbaglio o per rappresaglia), oltre a tutte le vittime di rapine, aggressioni, omicidi compiuti con armi di piccolo calibro in ogni Paese del mondo (Small Arms Survey 2009). Il problema è che l’industria legale produce e commercializza in media ogni anno 4,5 milioni di armi di piccolo calibro (per un valore di 5 miliardi di dollari) che poi rapidamente finiscono, dopo furti, malversazioni e bustarelle, sui mercati clandestini o illegali. E da lì in mano a delinquenti e guerriglieri di ogni genere. Per restare al nostro Yemen: nel 2005, durante le indagini per l’attentato compiuto da Al Qaeda nel 2004 contro il consolato americano di Gedda (in Arabia Saudita, affacciata sul Mar Rosso), i numeri di serie delle armi tolte ai terroristi rivelarono che esse provenivano da una fornitura ufficialmente consegnata al Governo yemenita.