La disponibilità degli Usa, espressa con le dure dichiarazioni del presidente Obama, a impegnare la potenza dell’apparato militare per scovare e distruggere i covi dei terroristi che hanno cercato di abbattere il volo Amsterdam-Detroit e uccidere i 278 passeggeri, va intesa, più che come un cambio di linea strategica, come una rinnovata presa di coscienza nei confronti del terrorismo internazionale e, in particolare, del fenomeno Al Qaeda. Barack Obama avrà anche ricevuto il premio Nobel per la pace, ma nella battaglia contro il terrorismo non ha mostrato tentennamenti: lo testimoniano l’aumento delle truppe in Afghanistan (non graditissimo ai suoi elettori) e, parlando di raid e caccia ai covi, l’attacco aereo del 18 dicembre che nello Yemen ha colpito una base di qaedisti uccidendo decine di persone tra le quali, pare, anche Anwar al Awlaki, l’imam della moschea di Great Falls (Virginia) di cui era stato seguace il militare che in novembre aveva ucciso 13 persone nella base di Fort Hood.
Non era l’impegno militare dunque a mancare ma, forse, la consapevolezza che Al Qaeda ha cambiato pelle ma non fine, e che a tutt’oggi non è sconfitta. Certo, l’Al Qaeda dell’immaginario collettivo, quella con Osama Benladen e Ayman al Zawahiri a tirare le fila di un’efficiente e spietata rete mondiale del terrore, non esiste più. Ha colpito durissimo in Africa, negli Usa, in Europa, ma alla fine, com’era inevitabile, ha perso lo scontro “militare” con l’Occidente che essa stessa aveva con insistenza cercato. Colpita a sua volta in Afghanistan e privata della più importante base organizzativa, Al Qaeda ha ripiegato su terreni dove si muove con più facilità e dove può sfruttare i rancori vecchi e nuovi delle popolazioni locali: in Asia soprattutto in Pakistan (nella regione di frontiera con l’Afghanistan, che mal sopporta anche il Governo centrale nazionale) e in India (dove la minoranza islamica è spesso discriminata), ma anche nelle Filippine; in Africa nello Yemen e soprattutto in Somalia.
Il caso somalo è indicativo di un fatto: Al Qaeda è riuscita ad adattarsi a circostanze per essa drammatiche (i capi braccati, i vecchi santuari distrutti, i bersagli strategici in Occidente ormai irraggiungibili) senza mutare strategia di fondo. La Somalia dei miliziani islamici shaabab è la replica africana dell’Afghanistan dei talebani degli anni Novanta; resistono alcune storiche complicità saudite; il reclutamento si è fatto più difficile ma non è bloccato; il flusso dei capitali, attraverso la rete di finte associazioni umanitarie e religiose, ancora notevole. Sono questi i problemi strutturali e decisivi che si trova ad affrontare chi è impegnato nella lotta al terrorismo, assai più che la distruzione di qualche covo o l’identificazione dell’Abdulmutallab di turno, cioè del giovane danaroso e squilibrato che diventa preda di questo o quel predicatore di odio.
Quando Obama parla di raid sui covi, segnala soprattutto una rinnovata disponibilità a inseguire su scala globale gli organizzatori del terrore, superando una routine dell’allarme che prevede controlli di massa per loro natura non impeccabili (tenere d’occhio tutti e sempre è impossibile) e una forte tensione bellica su pochi fronti caldi specifici. Dopo l’Iraq e l’Afghanistan e con truppe in 20 Paesi ai comandi del generale David Petreaus, il fatto che Al Qaeda abbia potuto riorganizzarsi su altri fronti segnala, semmai, un difetto d’iniziativa politica, non militare, da parte degli Usa. Ma l’Obama del discorso del Cairo al mondo islamico è uno che ha dimostrato di sentire perfettamente il vento. Con l’Iran per di più in ebollizione, è possibile che abbia in serbo qualche sorpresa.
Pubblicato su Avvenire del 31 dicembre 2009