PETROLIO IN MARE, IL MALE MINORE

L’attenzione del mondo, in queste ultime settimane, si è concentrata su due fenomeni: la nube provocata dal vulcano in Islanda e l’ondata di petrolio che si è riversata nel Golfo del Messico dopo il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della British Petroleum.

La piattaforma petrolifera Deepwater Horizon prima del disastro in cui sono morte 11 persone.

La piattaforma petrolifera Deepwater Horizon prima del disastro in cui sono morte 11 persone.

Il primo è un disastro naturale rispetto a cui, a quanto pare, c’è poco da fare. Il secondo è un accidente provocato dalle attività dell’uomo, impressionante anche perché successo poco dopo che Barack Obama aveva dato il proprio consenso (decisione opposta a quanto promesso in campagna elettorale) a ulteriori perforazioni e ricerche petrolifere in Alaska e, appunto, nel Golfo del Messico.

Ad una riflessione un po’ più documentata, però, l’incidente della Deepwater Horizon risulta assai simile a quello della centrale nucleare di Cernobyl. Prodotto anche quello dalle attività dell’uomo, terribile nelle conseguenze, spaventoso nelle reazioni provocate presso le opinioni pubbliche (in Italia, per esempio, i referendum del 1987 bloccarono la costruzione di centrali). Ma oggi il pianeta è pieno di centrali nucleari e, tanto per restare all’esempio nazionale, lo sono anche nazioni che con noi confinano come la Svizzera e la Francia.

Con questo, ovviamente, non voglio dire che versare in mare milioni di barili di petrolio, come appunto succede nel Golfo del Messico, sia una bella cosa. Attenzione, però, a prender la giusta misura delle cose. Il Congressional Research Service (vale a dire il Centro studi del Parlamento Usa), in un recente documento, ha ricordato che l’ultima grave fuga di petrolio da un pozzo sottomarino si era verificata 40 anni fa. E il National Research Council, ovvero il Centro studi dell’Accademia delle Scienze degli Usa, ha prodotto dati significativi: la media annuale di petrolio versato in mare dai pozzi sottomarini è calata dai 2,5 milioni di galloni del periodo 1980-1984 ai 12 mila galloni del periodo 2000-2004; le piattaforme petrolifere e i pozzi sottomarini producono solo l’1% del petrolio versato nelle acque territoriali americane, a cui si può aggiungere il 4% derivante dal traffico di petroliere e dagli oleodotti subacquei. Il resto, tutto il resto, viene da altre e purtroppo meno temute fonti.

Il problema vero, per quanto riguarda soprattutto gli Usa ma in generale tutti i Paesi industrializzati, non è l’inquinamento delle acque ma quello dei cieli e della politica. Da un lato, continuare a dipendere in maniera così esasperata dai combustibili fossili (gli Usa bruciano 21 milioni di barili di petrolio al giorno, tre volte la Cina che ha quattro volte la popolazione degli Usa) incide sullo stato dell’atmosfera e sullo stato termico del pianeta. Dall’altro, contribuisce alle fortune economiche (e quindi politiche) di Paesi come l’Iran di Ahmadinejad o del Venezuela di Chavez o della Nigeria dei generali, e prima ancora dell’Iraq di Saddam Hussein. Alla fin fine, insomma, cercare petrolio in acque profonde, nell’attesa di arrivare al giusto mix di energia nucleare ed energie rinnovabili, potrebbe sempre essere il male minore.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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