MEDIO ORIENTE, EPPUR SI MUOVE: GLI INSEDIAMENTI DI ISRAELE (seconda parte)

La mediocre politica araba scambia (o spaccia) spesso per vittorie quelle che in realtà sono concessioni dell’avversario. Così, nel 2005, i palestinesi festeggiarono come un conquista il ritiro israeliano da Gaza, deciso in maniera totalmente autonoma e unilaterale dal Governo allora guidato da Ariel Sharon. Allo stesso modo, la questione degli insediamenti in Cisgiordania è tornata alla ribalta non perché i palestinesi abbiamo saputo dettare l’agenda del discorso diplomatico (i palestinesi non possono e non sanno dettare niente a nessuno) ma perché era inevitabile che succedesse.

      Questo per due ragioni. Basta la cartina degli insediamenti in Cisgiordania, pubblicata nel post precedente, per capire una cosa: nessun discorso su uno Stato palestinese è possibile con gli insediamenti di mezzo, perché la loro dislocazione (tutt’altro che casuale) frammenta la continuità territoriale palestinese. Che Stato può sorgere in un territorio tutto punteggiato dalla presenza (consolidata e armata) di nuclei di cittadini di un altro Stato? Anche a causa degli insediamenti e della necessità di proteggerli, oltre che a causa della perenne ostilità palestinese, la Cisgiordania è oggi punteggiata di check point israeliani (qui sotto la cartina) che aggiungono problema a problema. Se si parla di Stato palestinese, insomma, si finisce per parlare degli insediamenti. E se l’intera comunità internazionale, dal Papa a Barack Obama, insiste sulla soluzione “a due Stati”, è chiaro che il tema degli insediamenti torna al centro dell’attenzione.

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      Ma questa, tutto sommato,  è la ragione più debole: Israele è allenatissimo a reggere le pressioni, anche quelle internazionali. Le ragioni più forti e profonde sono interne e riguardano il futuro stesso della società israeliana. Gli arabi (al 98% musulmani, al 2% cristiani) sono oggi il 22% della popolazione di Israele. Tutti i demografi avvertono che, a causa dei diversi tassi di natalità, gli ebrei possono trovarsi tra vent’anni a essere minoranza nella regione. Proprio per questa ragione Ariel Sharon decise di riportare “a casa” gli 8 mila coloni ebrei che vivevano a Gaza. In tale prospettiva, che cos’è meglio per Israele? Aspettare che gli arabi siano maggioranza anche all’interno dello Stato ebraico, attrezzandosi nel frattempo per tenerli a bada? Organizzarsi per resistere, domani, in un’area dove gli arabi saranno il 60-65% della popolazione? Oppure consentire alla nascita di uno Stato palestinese, cercando poi di spingere il maggior numero di arabi di Israele a viverci? E se questo Stato non potesse nascere (e non potrebbe) senza toccare gli insediamenti?

      Ancor più in profondità, c’è un’altra ragione. L’aliya (la “salita”, ovvero il ritorno degli ebrei in Israele) è di fatto bloccata. In termini rudi: gli ebrei non si trasferiscono più in Israele. L’ultimo grande flusso è stato quello degli ebrei dei Paesi dell’ex blocco sovietico, nei primi anni Novanta, con circa un milione di persone. I sionisti convinti e gli ebrei di fresca immigrazione (incentivati dalla più rapida assegnazione di case a buon prezzo e di posti di lavoro) sono sempre stati i più tipici abitanti degli insediamenti. Lo stesso ministro della Difesa Lieberman, un ebreo giunto dalla Moldavia, non a caso vive in un insediamento. L’inaridimento dell’aliya ha corroborato la tendenza per cui negli insediamenti sempre più spesso si trasferiscono non ebrei ma ebrei ultraortodossi, non più sionisti ma religiosi di destra. Sono loro, gli unici ad avere un tasso di natalità paragonabile a quello degli arabi, che fanno crescere la popolazione degli insediamenti nonostante che da essi se ne vadano ogni anno circa 10 mila persone, in gran parte giovani tra i venti e i trent’anni.

      Questo processo, però, è un rischio per Israele. La destra religiosa propugna il sogno del Grande Israele, che potrebbe realizzarsi solo con la cacciata o con la totale sottomissione degli arabi. Forse l’impresa è impossibile, in ogni caso richiede uno stato di conflittualità permanente che rischia di minare le fondamenta stesse di Israele, a partire dalla sua natura di democrazia occidentale. Proprio il timore che spinse Sharon, che per tutta la vita aveva sostenuto la politica degli insediamenti, a ritirarsi da Gaza, o una militante della destra estrema come Tsipi Livni (non dimentichiamo che il suo partito, Kadima, pur escluso dalla maggioranza di Governo, è sempre il partito più votato dagli israeliani) a seguire quella svolta. Per questo è inevitabile che Israele affrontyi, prima o poi, la questione degli insediamenti: è una democrazia troppo avanzata e una società troppo lucida per non farlo.(Israele 2. Fine) 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

4 Commenti

  1. fabio cangiotti said:

    Caro Fulvio, gli insediamenti sono anche figli del rifiuto degli arabi e dello stesso Arafat a trattare dopo la sconfitta del 67(la solita arroganza degli sconfitti). E come ha detto Netanyahu, non c’è stato un solo ritiro di Isrele (Libano, trattative del 2000, Gaza) che abbia retto alla prova della realtà. Nel senso che ogni volta che questo succede, gli arabo-palestinesi si ringalluzziscono e muovono guerra o terrorismo. Ci vorrebbe un nuovo Sadat. Se esiste.

  2. Fulvio Scaglione said:

    Caro Fabio,
    ciò che scrivi è tutto purtroppo vero. Non di meno, idee migliori di un doppio Stato per ora non se ne vedono. E qualunque discorso sui due Stati passa per il problema degli insediamenti. Occhio anche a una cosa: se dopo sessant’anni Israele è ancora lì a temere un attacco palestinese (bellico, terroristico, quel che vuoi), come pensano a Gerusalemme di passare i prossimi sessant’anni? Attribuire tutta la colpa ai palestinesi può essere giusto e gratificante, ma poi? Il punto su cui riflettere a fondo, secondo me, è questo: i palestinesi tornerebbero domani (non tutti, ma tanti sì) in Palestina, gli ebrei (che pure potrebbero farlo anche domani) non se lo sognano neppure. A me, che sono per i due Stati e non ho rancori verso nessuno, non importa. Ma quali sentimenti credi che susciti questa constatazione nel mondo arabo?
    Comunque, come tu sai bene, è un gran pasticcio, che potrà essere risolto solo quando sul terreno, nelle strade, nei negozi, maturerà una diversa coscienza. E siamo ancora molto, molto lontani.
    Ciao, a presto

    Fulvio

  3. piersabatino deola said:

    Ne basterebbe uno,e sarebbe anche troppo,a dire stupidaggini.
    Purtroppo siete in due.

  4. Fulvio Scaglione said:

    Caro Piersabatino,
    è un peccato che tu non ci faccia partecipi dei tuoi argomenti. Chissà quante cose avremmo tutti imparato.
    Ciao ciao

    Fulvio

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