IRAQ: GLI USA VANNO VIA, GLI IRACHENI NO

In questi giorni mi vengono in mente spesso le due barzellette più tragiche degli ultimi anni: “Le donne afghane bruciano i burqa” e “Missione compiuta in Iraq”, entrambe dovute al genio comico di George W. Bush. Ci furono molti, ingenui o cialtroni, che si diedero da fare anche da noi per spacciarle per verità. Dopo 9 anni di guerra, in Afghanistan lapidano i fidanzati ventenni e i generali Usa (ultimo il supergenerale Petraeus) contraddicono persino il presidente Obama sull’opportunità di un prossimo ritiro. E in Iraq?

Un soldato americano e una bambina irachena a Baghdad.

Un soldato americano e una bambina irachena, un curioso incontro nel centro di Baghdad.

In Iraq, per certi versi, è anche peggio. Perché lì, come ci hanno spiegato a lungo, c’è la democrazia, perbacco. Lì si vota, e con ordine. Ci sono politici illuminati. Il terrorismo veniva da fuori e tutti i capi di Al Qaeda sono stati eliminati. C’è il petrolio, la ricostruzione. Se per Bush era “missione compiuta” già nel 2003, figuriamoci adesso. Non a caso proprio in queste settimane il contingente Usa viene ridotto a 50 mila soldati (erano 160 mila nel 2007), un altro passo importante verso il dicembre 2011, quando di soldati americani non dovrebbero essercene più.

E invece no. Partiamo dal ritiro Usa. E’ comprensibile che Obama tenga a chiudere la guerra aperta da Bush, anche in vista dell’elezione presidenziale del 2012. Ma gli iracheni sono contenti di questa scadenza? No. Tarek Aziz, il ministro degli Esteri di Saddam Hussein, sarà un poco di buono ma il Medio Oriente lo conosce. E dal carcere di Baghdad ha fatto sapere che il ritiro Usa sarebbe una follia. La stessa cosa, ma in termini più diplomatici, ha detto Babaker Zebari, comandante in capo dell’esercito dell’Iraq. Il ritiro è “prematuro”, secondo Zebari, e gli americani dovrebbero fermarsi in Iraq almeno altri dieci anni.

E’ chiaro che i timori degli iracheni sono legati, in primo luogo, alla mancanza di sicurezza. L’ultimo kamikaze ha colpito durissimo a Baghdad, nei pressi del ministero della Difesa: 7o morti nella folla di giovani che si accalcava a un centro di reclutamento dell’esercito. L’esercito che dovrebbe proteggere l’ Iraq non riesce neppure a proteggere se stesso. Ma c’è un’aggravante in questo genere di attentati. I giovani iracheni cercano di entrare nelle forze armate non perché posseduti dal demone del combattimento ma perché l’esercito è un buon datore di lavoro, in un Paese dove la disoccupazione è sempre intorno al 50-60% della popolazione. Un soldato arriva a guadagnare anche 500 dollari, una somma importante da quelle parti. Molti giovani pagano tangenti per riuscire a farsi arruolare e “sistemarsi”. Colpendo le aspiranti reclute, i terroristi non solo indeboliscono il morale delle truppe ma fanno marcire nella povertà un numero maggiore di famiglie. A queste, il ritiro degli americani non pare certo una buona notizia. E il mese di luglio, con quasi 600 civili uccisi, è stato il più cruento degli ultimi cinque anni.

E poi c’è la politica. Le elezioni si sono svolte il 7 marzo (doveva essere gennaio) con un’affluenza alle urne del 62,4%. Una buona percentuale e infatti si sono sprecati i titoli come “smacco per i terroristi” e così via. Però ancora oggi (cioè 6 mesi dopo il voto) l’Iraq non ha un Governo. E’ successo questo: nonostante fosse dato per favorito, il premier in carica, Nur al Maliki, sciita, le elezioni le ha perse. La sua coalizione ha ottenuto 89 seggi (sui 325 totali) contro i 91 raccolti invece da un altro sciita, l’ex premier Iyad Allawi. I sei mesi sono sfumati in inutili discussioni. La realtà è una sola: i due non si mettono d’acccordo e Al Maliki non vuole mollare il posto, anche se toccherebbe alla coalizione vincitrice l’onere e l’onore di formare il Governo.

Questo è l’Iraq reale, di cui infatti si preferisce non parlare. C’è l’Afghanistan, c’è la crisi, in Italia ci sono molte altre cose. E poi per l’Iraq nessuno sa più che fare. Le cialtronate dei dì che furono, però, non dovremmo dimenticarle. Perché poi, se ci fate caso, quelli che allora pontificavano sull’Iraq oggi pontificano su altro. Ma sempre pontificano.


Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

Un Commento;

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