AFGHANISTAN, LA GUERRA DEGLI OSPEDALI

Per la seconda volta in un mese i terroristi, in Afghanistan, hanno colpito un ospedale. Era successo il 21 maggio a Kabul, con un bilancio di 6 morti e 23 feriti; si è ripetuto ieri nel distretto di Azra, dove i morti sono stati almeno 20. Una strategia che offre due drammatiche conferme. Da un lato l’efferatezza e la crudeltà degli attentatori, che vanno in cerca di punti deboli nel sistema di controllo e, una volta trovatolo (negli ultimi tempi, appunto, le strutture sanitarie), colpiscono senza pietà. Dall’altro, l’indubbia intelligenza, anzi l’astuzia politica dei mandanti.

Un ospedale in Afghanistan.

L’attacco all’ospedale di Azra, infatti, arriva in un momento critico per l’Afghanistan. Pensiamo ai due fatti più evidenti: pochi giorni fa il presidente americano Obama aveva annunciato il ritiro di 10 mila soldati, prima tappa di un ritiro più massiccio che dovrebbe seguire a breve; ieri, il presidente afghano Karzai era a Teheran per una conferenza internazionale sulla sicurezza cui partecipavano anche Ahmadinejad per l’Iran, più i rappresentanti di Iraq, Pakistan, Sudan e Tagikistan. Proprio poche ore prima dell’attentato, Karzai aveva ammonito che “… non soltanto l’Afghanistan non ha ancora raggiunto la pace e la sicurezza, ma il terrorismo continua a estendersi e ci minaccia più che mai”.

Ma i fatti evidenti non sono sempre i più importanti. Da un punto di vista strettamente militare, infatti, è innegabile che nel 2010 e nel 2011 sono stati fatti sensibili progressi. I talebani (chiamiamo così, per semplicità, l’insieme di bande criminali, trafficanti di droga e guerriglieri che si oppongono alle Autorità afghane e alla forza militare internazionale) sono rimasti all’offensiva dal 2005 a tutto il 2009, ma sono stati bloccati e poi parzialmente ricacciati dalla controffensiva americana dell’estate 2010, seguita all’incremento del contingente (più 30 mila soldati) deciso da Obama nel dicembre 2009.

Anche la formazione di forze dell’ordine e forze militari afghane procede di buon passo. Sono ormai stati arruolati e istruiti 260 mila uomini, che dovrebbero diventare 300 mila entro la fine dell’anno e 400 mila nel 2013. Obama, giova ricordarlo, vorrebbe riportare tutti i suoi a casa entro il 2014.

La partita, però, si gioca solo parzialmente entro i confini dell’Afghanistan. Pesano molto, sulla situazione del Paese, le dinamiche regionali. Per esempio, i rapporti ormai assai tesi tra Pakistan e Usa. Il Governo pakistano è costretto a fare l’elastico: collabora con gli Usa ma non può farne troppa mostra, sia per non irritare le frange “critiche” dell’esercito e dei servizi segreti, sia per non offrire argomenti alla propaganda dei musulmani radicali. Un gioco delle parti emerso con tutta evidenza nei giorni dell’uccisione di Osama Bin Laden e nelle ricorrenti polemiche sulle operazioni della Cia in Pakistan e sulle incursioni aeree dei droni così cari al generale Petraeus.

I tracciati del gasdotto Iran-Pakistan-India.

 

Il Pakistan, però, ha tutto l’interesse a che gli Usa restino in Afghanistan o, almeno, se ne vadano solo dopo aver garantito la sua stabilizzazione: un Afghanistan troppo turbolento o in preda alla guerra civile potrebbe dare il colpo di grazia ai fragili equilibrii pakistani. Il tutto mentre l’India, storica nemica del Pakistan, è da tempo buona amica dell’Iran, che ha lungamente sostenuto nella battaglia per il nucleare e con cui stringe relazioni commerciali sempre più intense (nel 2010 scambi per 14 miliardi di dollari, con un incremento di 1,4 miliardi sull’anno prima).

Sulla regione c’è anche l’occhio della Russia e, forse, la mano della Cina. Iran, Pakistan e India hanno a lungo accarezzato l’idea dell’Ipi (Iran-Pakistan-India), un gasdotto che dovrebbe fornire la rampante economia indiana di grosse dosi di gas naturale iraniano, passando appunto per il Pakistan. Un progetto che non piace per nulla agli Usa, che vedrebbero così vanificate le sanzioni economiche imposte contro l’Iran. I costi e le pressioni americane hanno spinto l’India a ritirarsi, ma Iran e Pakistan hanno deciso di andare avanti e di coinvolgere la Cina nell’impresa.

Insomma, la solita sarabanda di interessi economici e politici inconciliabili o quasi. L’Afghanistan rischia di diventare il “campo neutro” in cui si scaricano rivalità e tensioni, rendendolo così instabile a prescindere dalla sua situazione interna.

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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