Terrasanta.net Domenica 28 maggio si vota in Turchia per decidere se la lunghissima era Erdogan (di fatto, 25 anni al vertice della politica turca) possa finire in archivio. Le premesse non sono favorevoli: Sinan Ogan, il candidato ultranazionalista arrivato terzo al primo scrutinio con il 5,2 per cento dei voti, ha deciso di appoggiare Recep Tayyip Erdogan, che già aveva avvicinato il 50 per cento (49,4 per cento, per la precisione) e raccolto un certo vantaggio sul rivale Kemal Kilicdaroglu, fermo al 44,9 per cento. Chi sia Erdogan, quali siano i suoi metodi di governo, quale il suo atteggiamento nelle relazioni internazionali, sono cose ormai note a tutti. Più interessante notare il modo in cui Kilicdaroglu, soprannominato «il Gandhi turco», leader del Partito popolare repubblicano e dell’alleanza di sei partiti che ha portato la sfida a Erdogan, ha provato a rispondere. Soprattutto speculando sui profughi.
Kilicdaroglu, mentre prometteva di riportare la democrazia in patria e riaprire la pratica dell’adesione della Turchia all’Unione europea, ha intensificato la retorica anti-migranti, ha agitato lo spauracchio di un’ondata di 30 milioni di migranti e ha promesso di espellere dal Paese tutti quelli già presenti, da lui valutati in 10 milioni. Sono cifre gonfiate: secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Acnur o Unhcr), in Turchia sono oggi presenti 3,9 milioni di profughi, in grandissima parte (3,6 milioni) provenienti dalla Siria. Però la mossa di Kilicdaroglu ha una spiegazione: esprimendosi così ha raccolto l’appoggio di Umit Ozdag, leader della destra radicale del Partito della vittoria, che secondo gli osservatori può mobilitare a sua volta un 5 per cento di consensi. Per dire quanto il tema dei migranti si presti alle speculazioni politiche: Ozdag è andato in televisione a dire di aver raggiunto con Kilicdaroglu un accordo per espellere entro l’anno 13 milioni di profughi. E ha aggiunto, in una specie di appello: «Votate Kilicdaroglu se volete che le vostre madri, figlie e mogli possano camminare sicure per strada e se volete che l’economia turca fiorisca senza il peso dei 10 miliardi di dollari l’anno che dobbiamo spendere per mantenere tutti questi rifugiati».
Nulla, o molto poco di tutto questo potrebbe avvenire in realtà. La Turchia ha sottoscritto impegni internazionali in proposito che non le lasciano molto margine. In particolare, quello con l’Unione europea del marzo 2016, per «filtrare» i profughi siriani che, attraversando la Turchia, raggiungevano la Grecia, cioè il territorio dell’Ue. Accordo che rende alla Turchia, oltre a una importante leva politica, anche parecchi miliardi di euro. Amnesty International ha detto di quell’accordo che è stato «deleterio per la storia dei diritti umani nell’Ue e ha messo in luce la volontà dell’Ue di sottoscrivere patti di limitazione dell’immigrazione basati esclusivamente sulla convenienza politica e con scarso interesse per l’inevitabile costo umano», il che spiega molto. Resta il fatto che pare difficilmente realizzabile l’idea di proporre di rompere un patto con l’Unione europea e nello stesso tempo immaginare di entrare a farne parte. Una contraddizione clamorosa, che rende più plausibile l’ipotesi di un’ennesima capriola vincente del solito Erdogan.