Ancora una volta i destini della Siria di Bashar al-Assad passano per Mosca. Nel 2015 fu l’intervento armato delle forze russe a salvare il suo potere dall’impatto congiunto della contestazione interna, delle sanzioni occidentali e dalle formazioni dell’estremismo islamico foraggiate dalle monarchie del Golfo Persico e dalla Turchia. Ora le speranze di recuperare a una vita più normale il Paese quasi annientato da dodici anni di guerra risiedono nei colloqui che il Cremlino organizza a Mosca. Il primo si era svolto in dicembre, ma senza i rappresentanti dell’Iran. Il secondo il 25 aprile scorso, con la partecipazione dei ministri della Difesa e dei capi dei servizi segreti di Russia, Turchia, Siria e Iran. L’ultimo il 10 maggio, con i ministri degli Esteri della Russia, Sergej Lavrov, dell’Iran, Hossein Amir-Abdollahian, della Siria, Faisal Mekdad, e della Turchia, Mevlut Cavusoglu. Il tutto in un quadro internazionale che, rispetto agli ultimi anni, segnala comunque importanti evoluzioni. Pochi giorni fa, per esempio, il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, Faisal bin Fahran, si è recato a Damasco per incontrare Assad. E con insistenza si è parlato della possibilità che la Siria venga riammessa nella Lega Araba, da cui fu espulsa nel 2011, in coincidenza con le manifestazioni di protesta e la repressione. Cosa poi puntualmente avvenuta.
Il fatto che gli incontri moscoviti si svolti a lungo con l’esclusiva partecipazione di militari e spie, e solo ora si sia arrivati a far incontrare i politici, la dice lunga sulla strada ancora da percorrere. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha più volte definito «un assassino» il siriano Assad, il quale ha ripetuto che non incontrerà Erdogan finché l’ultimo soldato turco non avrà lasciato il territorio siriano. Le questioni personali, però, alla fine contano poco. Erdogan e Assad non sarebbero né i primi né gli ultimi politici ad abbracciarsi dopo essersi odiati, se ne vedessero necessità o convenienza. Il problema è che in Siria non c’è solo un problema di pace, guerra e ricostruzione (comunque già drammatico) ma un groviglio internazionale ancor più complesso da sciogliere perché gli interlocutori, Russia, Turchia, Siria e Iran, sono anche coinvolti in altre crisi, prima fra tutte quella ucraina.
Qualche esempio. Assad vuole il ritiro delle truppe turche dal Nord della Siria, dove si sono installate dopo quattro grandi operazioni militari. Erdogan non vuole ritirarsi perché, dice, occupare quel territorio gli permette di combatte il terrorismo curdo. Se le truppe turche se ne andassero, la Siria recupererebbe una parte importante del proprio territorio ma si troverebbe a gestire la “questione curda”, ovvero le tensioni con la minoranza etnica che ha da sempre un forte spirito autonomista, se non indipendentista, che ambisce ad avere uno Stato autonomo, che si è guadagnata molte benemerenze combattendo l’Isis e che, soprattutto, è protetta (sia pure a fasi alterne) dagli Stati Uniti. I quali, a loro volta, occupano una porzione di territorio siriano ricca di petrolio, da cui nemmeno sognano di schiodarsi, anche perché da lì possono controllare le azioni dei russi e soprattutto degli iraniani.
Altra difficoltà: il 14 maggio Erdogan affronta elezioni presidenziali che sono soprattutto un referendum sulla sua figura. Che potrebbe succedere se vincesse il 74enne Kemal Kilicdaroglu, candidato dell’opposizione? Gli analisti dicono che le grandi linee della politica internazionale turca non cambierebbero, che le relazioni con la Russia proseguirebbero inalterate (Erdogan ha attivato la prima fase operativa della centrale nucleare di Akkuyu, costruita da russi) e non ci sarebbero sbilanciamenti nella questione ucraina. Ma chi può esserne davvero certo? E poi: l’Ucraina, d’accordo. Ma i curdi? E la Siria? E l’Iran?
Dai colloqui di Mosca, quindi, non possiamo aspettarci miracoli. Per ora sono una porta aperta che nessuno ancora sa o può attraversare.