Il terrificante terremoto che ha colpito la Turchia e la Siria ha prodotto una serie di scosse di assestamento anche in politica. Recep Tayyep Erdogan difficilmente avrebbe immaginato che a muoversi tra i primi per portare aiuto sarebbero state l’Armenia e la Grecia, due Paesi che con la Turchia hanno relazioni a dir poco travagliate. Tra Armenia e Turchia, divise da rancori profondi fin dal genocidio degli armeni del 1915 e che si sono rinfocolati quando l’Azerbaigian, armato e appoggiato dalla Turchia, ha invaso e occupato parte del Nagorno Karabakh armeno l’anno scorso, non esistono relazioni diplomatiche, e per far passare gli aiuti armeni i turchi hanno dovuto riaprire il ponte del valico di Margara, che avevano chiuso trent’anni fa. Non solo: il ministro degli Esteri armeno, Arat Mirzoyan, ha visitato la città turca di Adiyaman, come tante altre sconvolta dal terremoto, con un gesto che certo influirà sul processo di disgelo che da qualche tempo, anche se con andamento incerto, è in corso tra Erevan e Ankara.
La diplomazia dell’emergenza funziona, pare, anche nell’altro senso: l’Azerbaigian vuole che prima di un accordo tra Armenia e Turchia ne sia firmato uno tra Armenia e Azerbaigian, per certificare lo status quo della recente conquista. E sa che l’appoggio della Turchia è decisivo. Così, per non farsi “superare” dai nemici armeni, ha inviato tra le macerie delle città turche la più folta tra tutte le squadre di soccorso, ben 900 uomini, superando quelle non piccole di (nell’ordine) Spagna, Cina (467 uomini, e la cosa non è passata inosservata), Israele (450, a conferma del miglioramento dei rapporti, come abbiamo già raccontato in questo blog) e Russia (401).
Quasi altrettanto si può dire della Grecia, il Paese che Erdogan ha scelto come «nemico esterno» da conservare mentre andava a sanare vecchie cicatrici con Israele, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Anche da Atene sono arrivati aiuti, consegnati personalmente dal ministro greco della Protezione civile. E il ministro greco degli Esteri, Nikos Dendias, ha visitato la provincia di Hatay, una delle più colpite, insieme con il collega turco Mevlut Cavusoglu. Non basterà a risolvere tutti i problemi (Erdogan ha più volte minacciato l’azione militare contro la Grecia) ma a livello diplomatico qualcosa cambierà.
Non cambia nulla, invece, per la Siria, Paese ridotto in povertà dalla guerra (era totalmente autosufficiente fino al 2011) e tenuto nella miseria dalle sanzioni internazionali, che non hanno ottenuto nulla dal punto di vista politico però accrescono grandemente le sofferenze della popolazione. L’unica cosa sensata e degna era, di fronte a una tragedia come quella del sisma, era sospendere almeno provvisoriamente le sanzioni e far arrivare la massima quantità di aiuti. Finirà, invece, che gran parte dei soccorsi andrà alle zone controllate dai miliziani islamisti appoggiati dalla Turchia (oggi si chiamano Governo di salvezza nazionale, prima erano Hayyat Tahrir al-Sham, prima ancora Al Nusra, all’origine Al Qaeda) che a sua volta controlla gran parte degli accessi alle regioni del Nord dove le scosse hanno fatto più danni e che, ovviamente, indirizzerà i soccorsi dove preferisce. Assad fa il resto, con riserve, ritardi e blocchi che si scaricano sul già sofferente popolo siriano.
Pubblicato in Babylon, il blog di Terrasanta.net