Distratti dalla tragedia che si dipana in Ucraina, o forse non abbastanza concentrati sulle questioni dei diritti umani e civili quando riguardano Paesi che l’Occidente non ha interesse a mettere all’indice, i nostri media hanno trascurato una vicenda che merita, a dir poco, di non passare sotto silenzio. Ricordate Jamal Kashoggi? Era un giornalista saudita che collaborava con il quotidiano statunitense Washington Post e sosteneva posizioni critiche nei confronti della monarchia saudita, in particolare del giovane principe ereditario Mohammend bin Salman, l’uomo forte del regime. Il 2 ottobre 2018 Kashoggi, 59 anni, accompagnato in auto dalla sua compagna, entrò nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul e non fu mai più rivisto. Si pensa, in seguito alle indagini giornalistiche e giudiziarie, che Kashoggi sia stato torturato e ucciso da un gruppo di agenti segreti sauditi, che poi smembrarono il cadavere e ne dispersero i pezzi.
La Turchia, all’epoca, fece fuoco e fiamme, anche perché i fatti, al di là della loro crudeltà, costituivano una cruenta e grottesca violazione di ogni regola diplomatica. Molti altri Paesi espressero il proprio sdegno. Qualche tempo dopo, sempre a Istanbul, cominciò il processo a carico di 26 cittadini sauditi più o meno coinvolti nell’orrendo omicidio. La pratica giudiziaria si è trascinata stancamente per anni fino all’ultima e definitiva svolta: la Corte turca ha deciso di sospendere il processo a carico degli agenti sauditi e di trasferirlo… all’Arabia Saudita. Da notare: tra i due Paesi non c’è alcun accordo di cooperazione in campo giudiziario e l’Arabia Saudita non ha sottoscritto alcun trattato internazionale che sia stato firmato, in questo campo, anche dalla Turchia. Per finire, in Arabia Saudita il processo per i fatti relativi alla morte di Kashoggi è stato chiuso con un nulla di fatto già molto tempo fa.
Hatice Cengiz, la compagna turca di Kashoggi, e i suoi avvocati hanno subito presentato ricorso, ma con pochissime speranze di ottenere soddisfazione da parte del tribunale di Istanbul. La ragione è chiara. La profonda crisi economica ha spinto il regime del presidente Recep Tayyip Erdogan a rivedere una linea politica che aveva portato la Turchia in un quasi completo isolamento. Un Paese che nel 2022 soffre di un’inflazione superiore al 60% su base annua ha bisogno di alleanze e cooperazione. Da qui l’esigenza di rilassare i rapporti con Israele e con le monarchie del Golfo Persico, l’uno e le altre da anni protagonisti di un clamoroso processo di riavvicinamento. Insomma, Erdogan ha bisogno dell’aiuto del Paese tecnologicamente più sviluppato (Israele) e di quelli come Arabia Saudita e Qatar che sono le cassaforti del mondo. Di fronte a tutto ciò, la memoria di Jamal Kashoggi e il dovere di fare giustizia pesano assai poco.
Per finire. Qualche settimana fa, il principe saudita Mohammed bin Salman, per convinzione generale mandante dell’omicidio Kashoggi, è stato intervistato da un periodico americano. E ha detto quanto segue: «Se far uccidere la gente fosse il mio stile, Kashoggi non sarebbe stato nemmeno tra i primi mille candidati». Così, per dire.