SANZIONI CONTRO LA RUSSIA, SWIFT E OLTRE

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C’è la guerra in Ucraina e c’è lo scontro dell’Occidente, Unione Europea e America del Nord in primo luogo, con la Russia. La prima è combattuta con le armi, il secondo con le sanzioni. E queste, a loro volta, avrebbero lo scopo di convincere l’aggressore a fermarsi o, più realisticamente, di punire la Russia. E proprio mentre l’Occidente s’interroga sui propri strumenti, bisogna avere l’onestà di riconoscere un dato storico: nessuna campagna di sanzioni ha mai ottenuto gli scopi di cui sopra, ovvero convincere un governo a cambiare la propria condotta o un politico a lasciare il potere.

Basta guardarsi intorno. Cinquant’anni e più di blocco economico non hanno piegato Cuba né i Castro. Idem nell’Iran degli ayatollah o nella Siria di Bashar al-Assad, tantomeno nella Russia di Vladimir Putin, sotto sanzioni da molto prima dell’attacco all’Ucraina. E sono vuote le parole di Josep Borrell, alto commissario Ue alla Difesa e Sicurezza, quando dice: «Vogliamo isolare la Russia dalla comunità internazionale ma non vogliamo pesare sulla popolazione». La prima cosa forse avverrà, la seconda avverrà di certo, come è sempre successo in questi casi.

È ovvio, però, che l’Europa qualcosa doveva pur fare rispetto a un Cremlino che, scatenando la guerra in Ucraina, rischia di coinvolgere l’intero continente in una crisi profondissima. Basta osservare quanto avviene in queste ore, con la Polonia che arma l’Ucraina, la Russia che accusa l’Estonia per un attacco informatico che definisce «atto di guerra», i cieli bloccati ai voli civili dall’uno e dall’altro Paese. E questa campagna di sanzioni è di certo la più ampia e profonda che il mondo abbia mai conosciuto.

Il provvedimento più discusso, perché il più «aggressivo» e radicale ma anche quello con il più alto valore simbolico, è l’esclusione della Russia dal circuito Swift (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), una società fondata nel 1973, con sede in Belgio, che s’incarica di smistare le transazioni finanziarie internazionali. È l’autostrada dei trasferimenti di denaro, dal piccolo bonifico al grande investimento: 385 milioni di operazioni nel solo mese di febbraio ancora in corso. È stato calcolato che cacciare la Russia equivarrebbe a danneggiare il 75% dei suoi operatori finanziari, fino a far calare il suo Pil del 5%. Calcoli forse ottimistici, ma di certo il danno all’economia russa sarebbe importante. Soprattutto se affiancato ad altre decisioni già prese, come per esempio il blocco alle esportazioni verso Mosca delle tecnologie e dei pezzi di ricambio necessari all’industria estrattiva (gas e petrolio, l’architrave del bilancio statale russo) e ai trasporti (i voli aerei sono decisivi in un Paese di quelle dimensioni).

Si è detto in questi giorni che non tutti i Paesi europei erano d’accordo con tale misura. Che Italia, Germania, Ungheria e Cipro, per esempio, avessero manifestato forti perplessità, prima di allinearsi agli altri Paesi Ue. È chiaro che anche l’Europa si sta addentrando in territori sconosciuti. Non tutti i possibili risvolti tecnici sono già chiari. Come potremo pagare il gas e il petrolio che compriamo, se non avremo più uno strumento di comunicazione finanziaria con la Russia? E ancora: la Russia continuerà a venderci il suo gas, che contribuisce per il 41% al paniere energetico europeo? Quanto ci costerà in più, nel caso, comprarlo altrove? Quali saranno le conseguenze per noi?

Nel caso specifico della guerra in Ucraina e di queste sanzioni, però, c’è un aspetto da non sottovalutare. I russi sanno fare sacrifici. E sono pieni di orgoglio nazionale. Tutti i sondaggi hanno dimostrato che hanno a cuore le sorti del Donbass e delle sue Repubbliche. Ma non avevano e non hanno alcun desiderio di guerra, tanto meno di una guerra con un popolo loro stretto parente. E non hanno alcuna voglia di isolarsi dal mondo, di rompere le relazioni con un’Europa che magari sentono diversa ma che frequentano, conoscono e apprezzano.

Gli uomini d’affari, oligarchi o no, ammutoliti davanti a Vladimir Putin e i ragazzi che scendono in strada a protestare sono le due facce di una stessa costernazione. Di un dissenso che può crescere e avere, col tempo, conseguenze impreviste nei dintorni di un Cremlino dove il discorso della successione a Putin, sia pur dietro le quinte, è da tempo aperto.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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