Anche così, però, la prospettiva di una guerra guerreggiata non convince. La Cina sa bene che, in caso di attacco, dovrebbe fronteggiare una reazione degli Usa e del Giappone, con ogni probabilità affiancati da Regno Unito e Australia come sancito dal recente trattato militare chiamato appunto Aukus (US, UK, Australia). Paesi che, se pure non andassero allo scontro militare (davvero sarebbero pronti a combattere per proteggere Taiwan?), potrebbero creare alla Cina notevolissimi problemi. Siamo sicuri che Taiwan per Pechino sia così preziosa? Davvero il vecchio sogno della riunificazione vale tanta pena, per una Cina che nel 2013 è diventata la più grande economia mondiale, dal 2019 detiene il record di attivo nella bilancia commerciale (anche nello scorso agosto ha portato a casa 45 miliardi di dollari di profitti commerciali) e da anni fornisce agli Usa circa il 20% delle loro importazioni? In altre parole: per riconquistare Taiwan avrebbe senso compromettere una serie di relazioni grazie alle quali la Cina finanzia lo sviluppo interno, ben lungi dall’essere concluso visto che, per fare un esempio, il Pil pro capite di cui godono i cinesi è ancora 8 mila dollari l’anno inferiore a quello dei russi, che non nuotano nell’oro?
Il sospetto, quindi, è che valga il vecchio proverbio indiano: quando gli elefanti litigano è l’erba che soffre. Ovvero: Taiwan è il tamburo che la Cina percuote per mandare segnali al vero avversario, cioè gli Usa. C’è una data importante alle viste: nel 2022 si svolgerà il XX Congresso del partito comunista cinese in cui Xi Jin-ping chiederà di essere confermato per la terza volta alla guida del Paese. E da quando (2013) Xi è al potere, la Cina ha cambiato postura: nella politica mondiale chiede, anzi pretende, lo spazio che si deve a una vera potenza. Da qui al Congresso, anche per ragioni di propaganda interna, Xi Jin-ping tutto farà tranne che alzare il piede dal pedale del nazionalismo o mostrarsi timido nei confronti degli Usa. Soprattutto ora che la presidenza Biden, recuperando temi irrisolti dell’era Obama e rileggendo certe pagine dell’era Trump, sembra più decisa a opporsi all’espansionismo cinese, soprattutto in Asia.
Non sembra, questa, la cornice di una guerra ma piuttosto la ricerca del logoramento dell’avversario, una partita che prevede lo spostamento continuo dei pezzi da un lato all’altro della scacchiera. Il che non esclude, anzi garantisce, per Taiwan anni difficili nel prossimo futuro. L’isola oggi è l’emblema perfetto delle opposte ambizioni e delle differenti retoriche. Per la Cina un pezzo di patria da riportare a casa contro l’imperialismo americano, per gli Usa un bastione di libertà e democrazia da difendere rispetto alle mire di un’autocrazia. Le opposte bandiere sventoleranno a più non posso, anche per nascondere i più banali e meno romantici interessi economici. E con tutto quel vento, Taiwan è a forte rischio di raffreddore.