Contro il demenziale progetto (che, a detta degli organizzatori, avrebbe così rappresentato «la diversità storica, culturale e naturale della Germania») si erano ovviamente pronunciati Jens Christian Wagner, direttore del campo, e Joseph Schuster, presidente del Consiglio centrale ebraico. Le loro voci, e quelle di molti altri critici della società civile, non sarebbero forse bastate se non fosse scesa in campo la politica. Il governo della Turingia e l’amministrazione della città di Weimar, nel cui comune ricade Buchenwald, hanno fatto energiche pressioni, fino a ottenere il dietro front degli organizzatori.
Una tardiva vittoria del buon senso? Difficile accettarlo, troppo facile la consolazione. Intanto perché non si sarebbe nemmeno dovuto arrivare a discuterne, tanto assurda e irrispettosa era l’idea, tanto più in un Paese come la Germania, che ha fatto su di sé un lavoro enorme. Ma soprattutto perché dopo decenni di dibattiti, discussioni, prese di posizione e iniziative di ogni genere, dobbiamo verificare che la memoria delle tragedie novecentesche tuttora non è un vero patrimonio collettivo e nemmeno un dato a acquisito della coscienza individuale. Più spesso, invece, un arnese da agitare contro l’avversario di turno.
Non bisogna infatti confondere la memoria con il ricorrente allarme contro un fascismo o un nazismo dati sempre sul punto di rinascere se non addirittura già rinati.I danni di questo «al lupo al lupo», che tra l’altro sottovaluta la forza della democrazia, li vediamo bene oggi, quando il green pass viene equiparato all’eugenetica nazista, e un provvedimento di salute pubblica a un decreto del Fuhrer, con la stessa disinvoltura con cui veniva dato per imminente il ritorno del Duce sotto le mentite spoglie prima di Berlusconi e poi di Salvini, o di qualche gruppuscolo di estrema destra peraltro ignorato o quasi dai cittadini.
Ciò che bisogna curare non è il simulacro della memoria, ma la sostanza. Ovvero, non l’idea che la storia debba ripetersi come un teatrino meccanico ma quella che i sistemi dell’uomo non sono perfetti e che l’errore è sempre possibile. Anche la Germania ha vissuto una risorgenza di gruppi dell’estrema destra ma nessuno di questi (e nemmeno tutti insieme) ha mai potuto mettere a rischio la democrazia tedesca. Sono assai più rischiose la noncuranza e l’indifferenza che agiscono dall’interno e che provano a rendere normale ciò che fu tragico, e accettabile ciò che ripugna a qualunque uomo di normale sentimenti.
È un problema non solo tedesco, ovviamente, e non solo dei Paesi dalla democrazia compiuta. In Russia, secondo un recente sondaggio del «Levada Center», il 56% degli interpellati giudica Stalin «un grande leader» e respinge qualunque critica, per esempio, alla sua politica nei confronti della Germania nazista e alla conduzione della seconda guerra mondiale, che costò 25 milioni di morti al popolo russo. Questo significa che al Cremlino sta per insediarsi un nuovo Stalin? Ovvio che no. Ma piuttosto che si perde la coscienza di come si arrivò a quel punto. E lo stesso vale quando vediamo che il Comitato olimpico internazionale non ha quel minimo di decenza per immaginare, durante i giochi di Tokyo, una qualche forma di omaggio alla tragedia di Hiroshima (150 mila morti, tutti civili), di cui ricorreva l’anniversario proprio ieri e che aprì l’era del terrore atomico.
La memoria della nostra storia, in altre parole, non è un tram. Non si può salire e scendere a piacimento, ma solo salire. Ed è un dovere approfittare della corsa: i nostri recenti antenati l’hanno pagata davvero a caro prezzo.