Tutto ciò avviene, in pratica, nel decimo anniversario della Rivoluzione dei Gelsomini, che portò alla cacciata del dittatore Ben Alì e che, dopo il sacrificio dell’ambulante Mohammed Bouazizi (che si diede fuoco per protestare contro gli abusi della polizia), fece da innesco alle cosiddette Primavere arabe. Nel 2015 il Quartetto per il dialogo nazionale tunisino fu insignito del premio Nobel per la Pace, giusto riconoscimento a una società civile che stava dando una lezione al resto del mondo arabo. Dalla dittatura alla democrazia parlamentare. Elezioni regolari, crisi di Governo senza traumi, cambi di maggioranza che vedevano alternarsi senza scontri i partiti di ispirazione islamista a quelli laici. Sembrava un sogno. Forse era un sogno.
La realtà è stata più prosaica e brutale. Il quadro politico tunisino è frammentato: Ennahda è il partito più influente ma nessuna formazione, in Parlamento, supera il 25% dei consensi. Il presidente Saied, eletto nel 2019, non ha mai trovato un accordo con Gannouchi, il leader di Ennahda. Risultato: tre primi ministri in un anno, una paralisi decisionale che ha bloccato ogni tentativo di affrontare le due grandi emergenze: quella economica e quella sanitaria.
La Tunisia ha un debito pari al 100% del suo Prodotto interno lordo. In particolare, ha un debito estero di 30 miliardi di dollari, che prova a ripianare con il turismo, le rimesse degli emigrati e le esportazioni. Con la crisi globale che impazza il compito è durissimo, anzi: impossibile. Da qui la necessità di prendere a prestito denaro che poi non riesce a restituire. Non a caso negli ultimi dieci anni la Tunisia è ricorsa già tre volte all’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, e il quarto prestito (4 miliardi di dollari) era quello che stava trattando l’ormai ex premier Mechici.
L’altra emergenza è quella del Covid-19. Prima il virus e poi la campagna vaccinale sono state affrontate in maniera disastrosa: 550 mila persone contagiate e 18 mila morte, in una popolazione di nemmeno 12 milioni. Solo il 10% della popolazione è stato finora vaccinato, al punto che il solito presidente Saied, non molti giorni prima di prendersi l’esclusiva del potere, aveva ordinato all’esercito di assumere il controllo dei centri sanitari e della distribuzione dei vaccini. In queste condizioni qualcosa doveva prima o poi succedere. Saied, se non altro, si è preso la responsabilità di non perdere altro tempo.
Bisogna ora vedere che cosa succederà. Ci sono state proteste in diverse città contro l’iniziativa del Presidente, ma anche manifestazioni a favore, forse pilotate. Il timore è che eventuali scontri tra fazioni possano innescare una guerra civile, ma la prospettiva, per ora, sembra lontana. Su Tunisi puntano lo sguardo i Paesi vicini, Libia e Algeria, l’una spaccata in due, l’altra reduce da una crisi che a quella tunisina molto somiglia. Ma anche l’Italia, che non ha smesso di confrontarsi con il problema dei flussi migratori e che proprio nel maggio scorso aveva siglato con il Governo tunisino un accordo su accoglienza e rimpatrii che pareva destinato ad aprire la strada a un patto strategico tra Tunisia e Unione europea. Adesso tutto torna in gioco, per loro e per noi. Ed è una brutta notizia.