LIBANO, UNA BOMBA A OROLOGERIA

libanoProteste a Beirut.

Situato in posizione strategica, c’è un Paese del Medio Oriente che attraversa una crisi politica profondissima (il premier incaricato tenta invano di formare un governo dall’ottobre 2020). È in totale bancarotta (dal 2019 i conti correnti sono bloccati e al mercato nero la valuta locale ha perso il 90 per cento del suo valore sul dollaro; nel solo 2020 il Pil nazionale è crollato di quasi il 20 per cento) e ha visto crescere il numero dei poveri in misura impressionante: su meno di 7 milioni di abitanti, 1,7 milioni sono in povertà e quasi 850 mila incapaci di soddisfare da soli i propri bisogni alimentari. In più, c’è un milione e mezzo di profughi siriani che, nella loro incolpevole disperazione, costituiscono un problema di enormi proporzioni. Questo Paese è il Libano, una realtà che i vari consessi politici internazionali (il recente G7, per esempio) faticano anche solo a nominare.

A dire il vero ha tentato di occuparsene la Francia. Dopo l’esplosione nel porto del 4 agosto 2020, che fece più di 200 morti e fece definitivamente cadere la maschera che ancora celava la crisi libanese, il presidente Emmanuel Macron fu il primo a presentarsi in Libano. Da allora, le massime autorità francesi si sono avvicendate nelle visite, senza però dare l’impressione di aver trovato il bandolo della matassa. L’Eliseo continua a puntare su Saad Hariri, che ha finora incontrato 18 volte il capo dello Stato Michel Aoun senza arrivare alla formazione di un Governo purchessia. Va dato atto a Macron e Hariri, però, che non abbondano le figure alternative. Tanto che persino il patriarca maronita, il cardinale Beshara Rai, ha proposto un «governo dei leader» pur di dare una scossa alla situazione.

Eppure, è proprio il perpetuarsi delle vecchie abitudini e dei vecchi personaggi a inchiodare il Paese al proprio fallimento. L’accurata spartizione per gruppi etnico-religiosi delle cariche pubbliche ha dato stabilità al sistema finché ha conservato la sua carica, per così dire, innovativa. Di certo particolare rispetto a una regione dove i gruppi, invece di cercare il compromesso, erano piuttosto abituati a scannarsi per la supremazia totale. Quando si è sclerotizzato, l’accordo spartitorio è diventato una specie di saccheggio istituzionalizzato. E quando si è allargato alla società (perché, per esempio, l’aeroporto di Beirut deve essere controllato dagli sciiti? Perché il commercio dei farmaci deve essere appannaggio dei cristiani ortodossi?) è diventato fattore di disgregazione.

Servirebbe un cambiamento radicale. Ma chi potrebbe guidarlo? E ancor prima: chi potrebbe avere il coraggio di volerlo? Perché, come si diceva, incastrato tra Israele e la Siria, il Libano è da sempre un ordigno da maneggiare con cura. Adesso è diventato una bomba a tempo.

Pubblicato in Babylon, il blog di Terrasanta.net

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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