DONALD, SALVATO DAL MAGISTRATO

donaldLa copertina di Der Spiegel con Donald Trump disegnato come un tagliagole della democrazia.

Se fossi Steve Bannon, il famoso e famigerato chief strategist della Casa Bianca, direi in privato (magari molto privato) a The Donald che la sentenza di James Robarts, giudice federale a Seattle (Stato di Washington), gli fa in realtà un gran favore. Com’è noto, Robarts ha sospeso temporaneamente gli effetti dell’ordine esecutivo numero 13 emesso da Trump, quello che sospendeva per tre mesi la concessione dei visti d’ingresso negli Usa ai cittadini di sette Paesi (Iran, Siria, Iraq, Libia, Yemen, Somalia e Sudan) di Medio Oriente e Africa. Il Dipartimento di Giustizia, per conto del Governo, ha presentato ricorso per l’annullamento immediato della sentenza ma la Corte d’Appello di Washington non ha acconsentito. sia gli Stati di Washington e Minnesota, che avevano presentato opposizione all’ordine presidenziale, sia il Governo devono ora presentare le loro memorie per il giudizio definitivo.

Washington e Minnesota sono Stati dominati dal Partito democratico. I due governatori sono democratici, i quattro senatori anche. Ma hanno fatto a The Donald un favore perché il suo ordine presidenziale era così mal concepito che sarebbe in effetti meglio ritirarlo strepitando contro le interferenze dei giudici che andare avanti ad applicarlo, ipotecando e azzoppando per chissà quanto tempo un’intera politica estera.

Ciò che spicca, in quell’ordine esecutivo, è soprattutto il desiderio di colpire l’Iran che, a differenza di tutti gli altri sei Paesi, non è disgregato e non rischia la disgregazione per opera del terrorismo sunnita. E benché abbia di certo trafficato con il terrorismo nel passato anche recente, oggi non è certo il Paese cui possa venire in mente di attaccare gli Stati Uniti. Non fosse altro che per il recente (2015) accordo raggiunto sul nucleare con essi oltre che con Russia, Onu e Ue, e per gli evidenti vantaggi che ne ha ricavato. Questo attacco di The Donald all’Iran, quindi, sembra concepito a freddo, per compiacere il Partito repubblicano (in cui molti non amano Trump, ma che è sempre stato contrario all’accordo siglato da Obama) e per blandire gli elettori che Trump, durante la campagna elettorale, aveva blandito anche attaccando gli ayatollah.

E’ chiaro quindi che mettere l’Iran in un calderone con Paesi tutt’affatto diversi e afflitti da problemi tutt’affatto diversi è già un errore. Ma il secondo errore di Donald Trump, ancor più grave, è stato di stilare una specie di colonna infame dei Paesi del Medio Oriente e dell’Africa che non solo è sganciata dalla sostanza del problema terrorismo ma va anche contro il programma che Trump aveva fatto in campagna elettorale.

La sostanza del problema terrorismo sta in ciò che tutti gli esperti del mondo spiegano da molti anni. E cioè che a partire dagli anni Ottanta, dalla reazione all’invasione sovietica dell’Afghanistan, il jihadismo cambia nome ma non ispiratori e finanziatori. Dai mujaheddin del popolo ai combattenti ceceni (nella seconda guerra), da Al Qaeda all’Isis, il meccanismo è sempre lo stesso: i soldi partono dalle petromonarchie del Golfo Persico, transitano per una rete di organizzazioni religiose e pseudo-umanitarie e finiscono ai miliziani. Se si vuole davvero affrontare il problema del terrorismo islamico sunnita (cioè dell’80% del terrorismo del mondo, oggi) bisogna tagliare il cordone ombelicale che lega i jihadisti a Paesi come Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti e ai loro forzieri. Donald Trump lo sa, come lo sanno tutti coloro che fanno politica.

E infatti in campagna elettorale aveva indicato l’Isis quale minaccia prioritaria alla sicurezza globale. Ma per stroncare l’Isis occorre appunto tagliare quel cordone, cioè tagliare i rifornimenti (di denaro, armi, direttive, ispirazione…) ai jihadisti. E quindi rivedere anche il “patto con il diavolo” che da decenni lega re e sceicchi finanziatori del terrorismo alle democrazie occidentali assetate di petrolio e di denaro. In questo sta la priorità globale della minaccia jihadista. Perché altrimenti basterebbe una vera campagna militare, che finora non c’è stata, per cancellare Al Baghdadi e i suoi dalla faccia del pianeta.

Questo aveva promesso Donald Trump agli elettori e questo dovrebbe fare. Il suo ordine presidenziale mette nel mirino non i Paesi che di quel patto sono promotori e attori ma quelli che, al contrario, ne sono stati vittime. Riallineando così Trump a quella politica di “esportazione della democrazia” che ha accomunato i presidenti Bush senior, Clinton, Bush junior e Obama e togliendo così carica innovativa e credibilità alla sua. Per cui, se posso consigliare il consigliere Bannon: strepitate, accusate questo e quello, ma cogliete al volo l’occasione per pensarci un po’ su e studiare qualcosa di meglio.

 

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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