TRUMP, ORA E’ UN DOVERE TIFARE PER LUI

trumpDonald Trump, 45° Presidente degli Stati Uniti d'America.

Chissà che Presidente degli Usa sarà Donald Trump. A dispetto di quanto sentiamo da settimane, nessuno può dirlo. Magari sarà un disastro, e non sarebbe il primo, alla Casa Bianca. In quel caso prenderemo atto, e lo stesso faranno gli americani. Nel frattempo, i tifosi travestiti da esperti (gli stessi che trovarono geniale l’idea di invadere l’Iraq nel 2003, esclusero la vittoria della Brexit e diedero per scontato il trionfo di Hillary Clinton) dovrebbero spiegare perché, per dire, Rex Tillerson, amministratore delegato e presidente di ExxonMobil e come tale conoscitore dei politici e della politica mondiale, dovrebbe essere un segretario di Stato peggiore della Clinton o di John Kerry. O perché l’ex generale Michael Flynn, due vite nell’esercito (una come soldato in innumerevoli missioni, l’altra come capo della intelligence militare) dovrebbe essere per Trump un consigliere per la Sicurezza nazionale peggiore di quanto lo sia stata Susan Rice per Obama.

Ma appunto: vedremo e capiremo. Per il momento, però, una cosa è certa: la vittoria di Trump ha fatto impazzire il sistema di potere che ha retto gli Usa negli ultimi decenni. Basta osservare quello che succede. L’Fbi è messa sotto accusa dal Dipartimento di Giustizia per essersi mal comportata, nel pieno della campagna elettorale, annunciando di aver ripreso le indagini su Hillary Clinton. La stessa Fbi che viene citata a sostegno della tesi che la Russia ha lavorato in modo decisivo per far vincere Trump. In altre parole: l’agenzia è credibile se dà ragione a Obama, alla Clinton e al Partito democratico; ha torto, anzi va punita, se dubita del comportamento di qualcuno di loro.

Sempre a proposito di Fbi. Qualcuno dei molti che lo citano ha davvero letto il rapporto dell’agenzia sulle interferenze russe, quello intitolato “Grizzly Steppe – Russian Malicious Cyber Activity”? Vale la pena di leggerlo perché è pieno di nulla. Dice che i servizi segreti russi hanno penetrato le mail di un partito politico e mandato un sacco di virus nei computer di uffici governativi, università, think tank e partiti politici. Poi dà buoni consigli su come proteggere il proprio computer. Non una parola su cosa gli hacker del Cremlino avrebbero ottenuto, perché sarebbe troppo imbarazzante ripetere che le primarie del Partito democratico erano truccate a favore della Clinton (come risulta dalle e-mail interne al Partito democratico pubblicate da Wikileaks). Non una parola sull’interesse del Cremlino nel far vincere Trump.

Ed è forse questa la ragione per cui l’Fbi ora è trascinata in tribunale per ordine di Obama. Troppo poco impegnata, l’agenzia, nel compito di diffamare Trump. Perché è questo il vero obiettivo e lo si vede bene dall’altro rapporto, quello intitolato “Assessing Russian Activities and Intentions in Recent Us Elections”, firmato dal National Intelligence Council presieduto da Gregory Treverton, nominato da Obama nel 2014.

Ci sono le solite accuse alla Russia, che usa gli hacker e, non contenta, finanzia siti, radio e Tv che diffondono il suo punto di vista, pensa un pò. Ma il cuore del tutto sta in un piccolo paragrafo posto verso l’inizio, che dice: “Putin ha fatto molte esperienze positive con leader politici occidentali resi dai loro interessi d’affari più disponibili ad accordi con la Russia, come l’ex presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi e l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder” (pag.1). Infatti, com’è noto, e a prescindere da qualunque giudizio politico, con Berlusconi e Schroeder questi due Paesi, Italia e Germania, si sono sganciati dalla Nato, sono entrati in conflitto con gli Usa e sono diventati satelliti della Russia. Chissà che cosa avrebbe scritto, il buon Treverton, se avesse conosciuto Craxi e Andreotti!

A questo punto, puntualissimo, è arrivato il dossier su Trump e le prostitute a San Pietroburgo e Mosca, fatto filtrare ai giornali da vecchi arnesi dei servizi segreti al soldo di esponenti del Partito repubblicano. Perché il punto è proprio questo: la vittoria di Trump rischia di mettere in crisi un sistema di potere che negli Usa è sostenuto da entrambi i partiti. Nel 1999, quando si trattò di bombardare la Serbia, fu il senatore democratico del Delaware ad andare a convincere il Congresso: tale Joseph Biden, per otto anni vice di Barack Obama alla Casa Bianca. E nel 2003, quando si trattò di autorizzare l’uso delle armi contro l’Iraq, 82 parlamentari democratici si unirono a 215 repubblicani per varare l’invasione.

Questo sistema si regge sulla famosa teoria della “esportazione della democrazia”, varata nel 1989, subito dopo il crollo del Muro di Berlino, dal presidente George Bush senior e dal suo segretario di Stato James Baker. Una bandiera in apparenza nobile ma sventolata solo per coprire il disegno degli Usa, teso a impedire la rinascita di Russia e Cina, a bloccare qualunque riavvicinamento tra Russia ed Europa, a ridisegnare il volto dei Balcani e poi del Medio Oriente. Un obiettivo strategico caro ai vertici del Partito democratico come ai neo-con. Dopo Bush senior, infatti, Bill Clinton, George Bush junior e Barack Obama (distrutta la Libia, aggravata la crisi in Siria, destabilizzata l’Ucraina. Ispirato o organizzato il golpe contro Erdogan, forse?) sono stati i fedeli continuatori di quella linea. E lo sarebbe stata anche Hillary Clinton, non a caso neanche tanto velatamente apprezzata dai pezzi grossi del Partito repubblicano, i vari Bush, Romney, McCain, se non le fosse esplosa tra i piedi l’inattesa bomba Trump.

Per questo ora Obama usa i suoi ultimi giorni da Presidente e mette all’opera i funzionari da lui stesso nominati per screditare l’intruso Trump, gettare le basi per un eventuale impeachment e, soprattutto, tentare di rendere impossibile al successore qualunque scarto dalla rotta demo-neo-con tracciata negli ultimi decenni. Vedremo come reagirà Trump a questa campagna che è di una violenza senza precedenti nella storia degli Usa. Ma considerato anche solo il sangue sparso dal premio Nobel per la Pace Obama, diventa inevitabile, e moralmente sano, fare il tifo per il palazzinaro dai capelli tinti, buzzurro amico dei russi. Sperando intanto che sappia pure fare il Presidente.

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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