LITVINENKO, PUTIN, OBAMA: LA MORALE COME ARMA (1)

litvinenkoLa tomba di Aleksandr Litvinenko, ucciso a Londra nel 2006.

Appena data un’occhiata a caldo, ho scritto che il Rapporto sulla morte per avvelenamento da polonio dell’ex agente del Kgb Aleksandr Litvinenko, redatto dopo un anno di indagini dal giudice inglese Robert Owen (ormai famoso per il “probabilmente l’ordine partì da Putin”), sarebbe dovuto finire nei programmi degli studenti di scienze politiche e di relazioni internazionali. Ora che me lo sono letto tutto (cosa non frequente, tutti sono corsi a buttar giù il commentino sdegnato), confermo la prima impressione.

Ovviamente, il Rapporto del giudice Owen, esaltato come un’inchiesta indipendente, è tutto tranne che un’inchiesta indipendente. Che inchiesta è quella che, dieci anni dopo i fatti, non deve approdare a un tribunale, non prevede incriminazioni, addita colpevoli senza proporsi di perseguirli? E quanto indipendente è un giudice, scelto dal Governo, che si ritira in buon ordine appena i servizi segreti inglesi gli dicono che non vogliono raccontare che cosa Litvinenk0 facesse per loro? Che nota il curioso fatto che Litvinenko e uno dei suoi (veri o presunti) killer, Lugovoj, fossero soci in affari nel ramo della sicurezza, ma quando va a chiedere lumi ai loro “datori di lavoro” si accontenta di un “era tutto a posto”, fermo restando che Lugovoj stava antipatico a tutti?

Teniamo presente che il Rapporto si basa sul fatto che l’assassinio di Litvinenko sia stato una cosa eccezionale, fuori dal comune. L’uso del polonio, che a sua volta è il presupposto (Owen ragiona così: il polonio sta nelle centrali, solo i servizi segreti potevano procurarselo, quindi ci voleva l’accordo del capo del Fsb Patrushev che non poteva muoversi senza l’assenso di Putin, che quindi “probabilmente”…) per chiamare in causa il Cremlino e Putin… Ma perché un tale dispiego di mezzi per un Litvinenko qualunque?

Litvinenko valeva tanto?

Il Rapporto (pagg. 52 e seguenti) indica quattro moventi. 1. Il rancore dell’ambiente dei servizi segreti russi per la diserzione di Litvinenko, passato ai servizi segreti inglesi con tanto di stipendio (lo dice Owen). 2. La collaborazione di Litvinenko con l’oligarca Boris Berezovskij, che per anni versò a Litvinenko e signora un corposo appannaggio (anche questo lo dice Owen). 3. Le critiche di Litvinenko a Putin e al suo regime, con particolare riferimento alla guerra di Cecenia e agli attentati che, tra il 4 e il 16 settembre 1999, uccisero 307 persone in tre città russe e che Litvinenko attribuisce all’Fsb e quindi a Putin. 4. L’attività di Litvinenko per i servizi segreti inglesi.

Vediamo questi moventi. Punto 1. Nel periodo tra le fine dell’Urss e l’avvento di Putin mollarono i servizi russi decine di agenti di diverso livello: si misero al soldo degli ex rivali occidentali, entrarono nel business della sicurezza, cominciarono a ramazzare qualche soldo vendendo pseudo-rivelazioni o facendosi intervistare. Per dirne una: quando facevo il corrispondente da Mosca, venne a trovarmi in ufficio Oleg Kalugin. Lui era stato un pezzo grosso vero nel Kgb: brillante autore di operazioni ai danni degli Usa (era riuscito ad arruolare Robert Lipka, agente del Nsa, e il crittografo della marina militare John Walker), vice direttore del controspionaggio, organizzatore dell’assassinio del dissidente bulgaro Markov a Londra, era diventato a 40 anni il più giovane generale nella storia del Kgb e, in seguito, anche uno dei suoi più aspri critici. Tanto che nel 1990 Mikhail Gorbaciov l’aveva pensionato a forza, privandolo di tutti i privilegi e le onoreficenze ottenute in carriera.

Eppure Kalugin girava tranquillo per Mosca, andava e veniva dagli Usa. Nello stesso periodo in cui Oleg Gordievskij, ex rezident del Kgb a Mosca passato ai servizi inglesi, arrestato a Mosca, fuggito in Gran Bretagna, condannato a morte nel 1985 e perdonato dopo il crollo dell’Urss, girava tranquillo per Londra. Insomma: perché perseguire con tanta costanza proprio una scartina come Litvinenko? E perché usare il polonio, che consente l’acrobatica ricostruzione del giudice Owen fino a Putin, quando un eventuale “messaggio” sarebbe arrivato chiaro e forte anche con un qualunque colpo di pistola per strada?

Punto 2. L’amicizia con Berezovskij. Ma l’oligarca era scappato in Gran Bretagna già nel 2000, la sua influenza sulla Russia era limitata ai soldi (in diminuzione, anche a causa di certe controversie con Roman Abramovic, il padrone del Chelsea, finite male) che poteva spendere per iniziative di agitazione politica, come per esempio i libri di Litvinenko.

Il che ci porta al punto 3, la Cecenia e gli attentati del 1999. Molti scrivono che gli attentati sarebbero serviti a Putin per scatenare la seconda guerra di Cecenia. Il che è tecnicamente sbagliato, perché Putin iniziò le ostilità il 26 agosto del 1999, con la re-invasione della Cecenia, mentre il primo degli attentati in questione è del 4 settembre. Ma è anche politicamente sbagliato: chi ha vissuto quei momenti in Russia sa benissimo che il clima generale era già così anti-ceceno che il Cremlino aveva ben poco bisogno di commissionare una simile strage (307 morti) per procedere con le armi. Ma ipotizziamo pure il contrario. E allora? Ciò che scrisse Litvinenko in un libro mai tradotto in inglese lo scrissero anche i giornalisti di mezzo mondo, oltre che un sacco di giornalisti russi. Vogliamo davvero credere che le parole di un transfuga avessero tanto peso da motivare un assassinio così clamoroso e, dal punto di vista politico, così poco conveniente?

E poi c’è il punto 4: il lavoro di Litvinenko per i servizi segreti inglesi. La moglie Marina dice (vedi il Rapporto) che lui lavorava per Mi5 e/o Mi6 (la signora non lo sa, curioso) come “consulente”. Niente di speciale, quindi. Allora perché ammazzarlo, e ammazzarlo così? Molto potrebbero dirci i servizi segreti inglesi, ovviamente. Ma chissà perché si rifiutano, e il giudice Owen prende e porta a casa il no.

Tutto questo per dire: magari Litvinenko l’ha fatto davvero ammazzare Putin, e magari no. Ma questo firmato dal giudice Owen è un atto politico. Rozzo, buono per chi legge solo i titoli dei giornali o i sommari di Facebook, ma intelligente, astuto. E soprattutto non casuale, organico a una strategia e a un modo di impostare le relazioni internazionali tipici dei nostri tempi. Per questo andrebbe fatto studiare nelle università. Ne parliamo ancora.

(1. continua)

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Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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