LIBIA: INTERESSI ITALIANI, SOLDATI ITALIANI?

italianiSoldati italiani in missione in Afghanistan.

Credibili o no, essendo le ultime di una ormai lunga serie, le minacce di Abu Yusuf al-Anabi, numero due dell’Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico) hanno comunque il merito di riportare l’attenzione sulla Libia e sui libici ma, più ancora, sugli italiani, sull’Italia e sul ruolo che il nostro Paese vorrebbe o potrebbe avere nella stabilizzazione del Paese.

Dopo il disgraziato intervento militare del 2011, fortemente voluto da Francia e Gran Bretagna ma a cui infine ci aggregammo, pur avendo firmato sei mesi prima con Gheddafi un trattato che ci impegnava anche a rispettarne il regime, il Paese si è disgregato in una miriade di potentati in lotta, è diventato la rampa di lancio per decine di migliaia di migranti (disperati che sono fonte di reddito per i banditi e le formazioni islamiste), si è aperto come una porta sull’Europa alla penetrazione dei seguaci di Al Qaeda e dell’Isis. Un bacino di anarchia e terrorismo a poche centinaia di chilometri da noi, dai territori italiani.

Italiani in Libia, se Renzi…

Bisogna insistere sul noi. Tra Italia e Libia c’è un cordone ombelicale di storia, affari e prossimità geografica che nessun altro può vantare. E buona parte dell’avventurismo bellico di Sarkozy nel 2011, era motivato proprio dal desiderio di mettere interessi francesi al posto di quelli italiani in quella posizione difficile ma anche privilegiata. Siamo inoltre il Paese che più di ogni altro si è assunto le fatiche e i costi dei flussi migratori in arrivo, via Libia, dall’Africa. Ora che le trattative per un Governo di unità nazionale sono a buon punto e il premier designato Fayez Sarraj sta per nominare i ministri, un intervento militare esterno avrebbe uno scopo preciso: è proteggere un embrione di pacificazione. E infatti se ne parla sempre più spesso.

E’ naturale, in questo quadro, che l’Italia si senta pronta a giocare un ruolo importante. Per dirla col ministro della Difesa Pinotti, “a guidare in Libia una coalizione di Paesi dell’area, europei e dell’Africa del Nord, per fermare l’avanzata del califfato”. Anzi: dovrebbero essere gli altri Paesi a chiedere a noi un impegno importante.

E invece, nonostante sia il nostro generale Paolo Serra a rappresentare in loco l’Onu nelle colloqui con le milizie, non è questa l’aria. Lo si è visto bene quando Bernardino Leon, il diplomatico spagnolo che aveva impostato la ricomposizione tra le fazioni ma era scivolato su un contratto da 50 mila dollari al mese con gli Emirati Arabi Uniti, uno dei Paesi che parteciparono alla guerra del 2011 e che hanno sempre sostenuto il Governo di Tobruk contro quello di Tripoli, è stato sostituito da Martin Kobler, un tedesco. Perché?

Concorrono in questo, forse, considerazioni pratiche e speculazioni politiche. L’Italia ha ottime fonti d’informazione in Libia (la nostra ambasciata fu l’ultima a chiudere, all’inizio del 2015) e i nostri soldati sono preparati e apprezzati. Però sono pochi. Dei 180 mila militari italiani, circa 35 mila hanno l’addestramento giusto. Di questi, almeno 4 mila sono impegnati in missioni estere, con altri 8 mila di riserva per gli avvicendamenti. Il che vuol dire che un terzo dei “nostri” è già indisponibile. E gli altri sono pochi per una mobilitazione da valutare in anni, con la prospettiva di dover combattere e con rischi elevati.

E poi c’è la politica. La missione in Libia avrebbe l’egida dell’Onu ma i nostri interlocutori più diretti, per le ricadute del suo esito, sono in Europa. C’è da chiedersi, quindi, quanto la tattica del premier Renzi di attacco alla Germania e alle istituzioni europee, giustificata o meno nello specifico, si concili con l’ambizione a far da Paese-guida della Ue in un progetto tanto impegnativo come la pacificazione della Libia. E quanto il silenzio che di solito accoglie le offerte-richieste dei nostri ministri sul tema Libia sia già un giudizio. Di certo sarà bene che l’Onu pensi bene a ciò che vuol fare. Gli italiani hanno molto da dire e da dare, in Libia. Laggiù, l’ultima cosa che serve è l’ennesima americanata.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 16 gennaio 2016

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Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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