PENA DI MORTE, LE ESECUZIONI AUMENTANO

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La pena di morte è una di quelle iatture che, non appena si comincia a darle per sconfitte, rispuntano, rialzano la testa, trovano inaspettati alleati. I numeri, tutti gli anni, dimostrano questa amara realtà. Nel 2015 sono stati “soltanto” 17 i Paesi ad applicare la pena capitale, mentre nel 2014 erano stati 22, come nel 2013. E in calo sono anche i Paesi che mantengono la condanna a morte nell’ordinamento giudiziario: 37 a fine giugno 2015, contro i 39 del 2013. Però le esecuzioni aumentano: 3.511 nel 2013 e 3.576 nel 2014, mentre nel 2015 erano già 2.229 nei primi sei mesi, secondo i dati di Nessuno tocchi Caino.

Il fenomeno si spiega con lo spuntare, appunto, di nuovi Paesi disposti a servirsi della pena di morte e con l’accresciuta inclinazione di altri a servirsene senza vergogna. Nella prima categoria possiamo mettere Egitto e Nigeria, e basta nominarli per capire perché: Paesi investiti dalla turbolenza politica e dalla bufera del terrorismo, quello salafita e jihadista in Egitto e quello stragista anti-cristiano di Boko Haram in Nigeria, e chiaramente impreparati alla sfida. I risultati di decenni di ricerche mostrano che la pena capitale non funziona come deterrente alla criminalità, anzi: laddove è stata abolita, omicidi e reati di sangue tendono a diminuire. Ma questo importa poco a quei Governi che, prima ancora che a vincere la sfida della violenza, si preoccupano di fare la faccia feroce, di non essere considerati deboli o cedevoli.

Pena di morte e Medio Oriente

Il circolo dei Paesi che ammettono e praticano l’omicidio di Stato è sempre quello, da anni. La Cina, dove le esecuzioni si contano migliaia, o meglio: si conterebbero se il loro numero non fosse un segreto di Stato. L’Iran, che nel 2014 ha “confessato” 289 esecuzioni ma che secondo Amnesty International ne avrebbe praticate almeno il doppio, in pratica due al giorno. E poi Arabia Saudita, Iraq, Pakistan. Tra le democrazie liberali gli Usa (28 esecuzioni, in calo rispetto alle 35 del 2014 ma comunque più numerose che nella Corea del Nord), seguiti a distanza da altri due Paesi della stessa categoria, Giappone e Taiwan.

Qui l’ambito è del tutto diverso, qui siamo alle prese con una questione culturale. E’ pur vero che tutti gli indicatori della pena di morte negli Usa sono in rapida discesa, dal numero degli Stati che l’ammettono a quelli che effettivamente la praticano, fino alle esecuzioni davvero portate a termine. Ma è altrettanto vero che nella folta schiera dei candidati a succedere a Barack Obama, solo uno, il democratico Martin O’Malley, ha fatto dell’abolizione della pena di morte un cardine del suo programma, mentre un altro candidato dello stesso partito, Bernie Sanders, sostiene le stesse posizioni ma con meno ardore. Purtroppo il candidato democratico più forte e accreditato, Hillaty Clinton, si è dichiarata favorevole a mantenerla, sostenendo a fine 2015 e di fronte a tutti gli americani l’esatto contrario di quel che sosteneva nel 2000 quando correva per il seggio senatoriale della progressista New York.

La questione sarebbe meno spinosa se non riguardasse la grande democrazia che stabilisce i trend culturali e politici che poi influenzano il mondo intero. Che succederebbe se gli Usa fossero abolizionisti e chiedessero ai loro amici e alleati di diventarlo? Forse Arabia Saudita e Pakistan, i due Paesi che stanno cercando in ogni modo di rimontare la classifica del maggior numero di esecuzioni, userebbero la pena di morte con più moderazione. E’ chiaro che sauditi e pakistani hanno preoccupazioni analoghe a quelle di egiziani e nigeriani: il terrorismo, la violenza, il settarismo… Ma in Arabia Saudita la gamma delle infrazioni alla legge islamica a cui può essere applicata la pena capitale è così vasta, ed è così spesso usata contro gli oppositori politici, che la scimitarra delle decapitazioni in piazza è ormai diventata uno strumento di controllo sociale. Il che non impedisce a una gamma ancor più vasta di politici occidentali di affacciarsi a Riad, stringere mani, dispensare sorrisi, firmare contratti e nemmeno fiatare su quel che avviene.

E il Pakistan? La pena capitale è in vigore da un anno appena e già le cifre dei messi a morte diventano da record anche se, com’è ovvio, il paese non ha intaccato alcuno dei suoi problemi, men che meno quello dell’islamismo rampante o delle province ribelli. Ennesima conferma che mettere a morte le persone, anche se sono Caino, sa di disperazione. Quella del boia, però.

Pubblicato su Avvenire del 30 dicembre 2015

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Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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