INTIFADA, LA DEBOLEZZA DEI “DURI”

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Gerusalemme – La cosiddetta intifada dei coltelli ha una colonna sonora, soprattutto di sera quando le gente ha più paura a uscire e i turisti stanno negli alberghi e negli ostelli. E’ fatta degli elicotteri che rombano per ore sulla Città Vecchia, mescolati alle sirene delle ambulanze e della polizia, ai richiami dei muezzin distorti dagli altoparlanti, alle strida dei gatti che si rincorrono nei vicoli. C’è poco di umano in questo panorama di macerie politiche e spirituali cui è ridotto il rapporto tra palestinesi e israeliani.

Se si resiste alla solita tentazione di ripercorrere, ognuno a modo proprio, la storia del mondo (e allora ecco le guerre dei Paesi arabi, la nakba palestinese e l’esodo del 1948, l’occupazione dei Territori e via via fino a ieri), diventa possibile riconoscere che questa nuova ondata di violenze nasce dalla doppia debolezza politica delle attuali leadership di Israele e Autorità palestinese. Benjamin “Bibi” Netanyahu e Abu Mazen si detestano, ma pure si somigliano.

Il premier israeliano, per la famosa rimonta che in marzo gli ha permesso di tornare al Governo contro ogni pronostico, ha dovuto imbarcare tutti i leader della destra più oltranzista, laica o religiosa che fosse. Ha vinto, ma nel modo per lui peggiore: una maggioranza risicatissima (61 seggi contro 59) che lo ha trasformato in una marionetta politica. Non può scontentare nessuno perché il minimo dissenso lo farebbe cadere. Così, in questi mesi, ha dovuto ingoiare di tutto: ministri che andavano a manifestare accanto ai coloni contro le decisioni della Corte Suprema, deputati e vice ministri che partecipavano alle provocazioni presso la Spianata delle Moschee, politici di ogni genere e rango che facevano a gara nell’atteggiarsi a “duri” con gli arabi. E lui zitto. Semmai, puntate polemiche contro Obama o all’Onu, per farsi vedere uomo d’azione.

Intifada e debolezze

Abu Mazen, pur con modi diversi, è nella stessa situazione. Ha 80 anni, non può fare la guerra (per fortuna) ma non sa fare la pace (purtroppo). Le sue iniziative politiche, anche quando avrebbero senso, sembrano improvvisate e irrazionali. E in Cisgiordania si è ormai smesso di votare, perché una qualunque consultazione, di questi tempi, rivelerebbe che Hamas è in testa ai consensi. Intanto in Cisgiordania la crisi economica impazza, la corruzione dei circoli al potere non diminuisce, la speranza di un miglioramento è ridotta ai minimi storici. Nessuno lo vuole più ma Abu Mazen resiste alla guida dell’Autorità, pur avendo dovuto mollare la presidenza del Consiglio nazionale palestinese. Più lui resiste, più si riducono le possibilità di un passaggio dei poteri a un leader più giovane, credibile e abile. Come peraltro avviene in Israele, dove Netanyahu è ormai stato al potere più dello stesso Ben Gurion, il padre della patria.

Entrambi i leader sono stati costretti a inseguire i toni delle ali estreme dei reciproci schieramenti, per non farsi scavalcare nella corsa all’uomo forte. E ora, palesemente, non sanno più che fare.

In mezzo sono rimasti questi giovani palestinesi dell’intifada che accoltellano il primo che trovano alla fermata dell’autobus e si fanno sparare dalla polizia, e i civili israeliani che rischiano la vita anche solo andando a fare la spesa. 31 palestinesi e 7 israeliani morti in meno di un mese, ecco il bilancio mentre scriviamo. Il fondo è già stato toccato, se un bambino israeliano di 13 anni è in fin di vita dopo aver ricevuto 12 coltellate da due adolescenti arabi poco più grandi di lui. E l’isteria collettiva bussa alla porta, se nei pressi di Haifa un israeliano ha potuto accoltellare un altro israeliano, scambiandolo per un arabo.

Si diceva delle macerie. La soluzione dei due Stati, uno palestinese e l’altro israeliano, capaci di vivere vicini e in pace, è andata in pezzi da tempo. Quella di un unico Stato comprensivo di arabi e israeliani, semmai fosse piaciuta a qualcuno, è ridotta in briciole adesso dall’intifada dei coltelli. Perché Israele si è adattato a contrastare il nemico “esterno”, sia esso Hamas a Gaza (il sistema antimissile Iron Dome, le guerre ricorrenti ma locali…) o i palestinesi della Cisgiordania (gli insediamenti, l’occupazione, il Muro…), ma sarebbe a mal partito se l’attacco partisse dall’interno, da quel 21% di popolazione araba che vive nei suoi confini, sia esso cittadino di Israele o meno.

Nascere, crescere e vivere in Israele non è bastato a questi giovani che prendono il coltello. E parlare di “israelizzazione” della minoranza araba, come ha fatto spesso, per esempio, il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat, chiaramente non basta se l’altra faccia della medaglia è fatta di diritti a scartamento ridotto e, appena al di là del Muro, di occupazione militare e insediamenti illegali. Il sindaco Barkat, oggi, è il primo a chiedere la chiusura di Gerusalemme Est e a incitare i concittadini a girare armati.

E se vogliamo dirla tutta, la cosa peggiore è che nessuno, qui, vuole sentir parlare di terza intifada. Le autorità israeliane perché l’attuale livello di violenza, per quanto spaventoso, non è paragonabile a quello dei kamikaze nei caffè o sugli autobus, come avvenne in passato. I palestinesi perché si sentono provocati in ogni modo dalla destra israeliana che si è messa al traino dei coloni. Da un lato e dall’altro si sottolinea che questi attentatori sono “lupi solitari”, privi di coordinamento, di strategia, di capi, anche di obiettivi. Forse è ciò che capita a tutti gli apprendisti stregoni.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 16 ottobre 2015

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Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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