EMERGENZA MIGRANTI QUA? CAMBIAMO POLITICA LA’

emergenzaMigranti intercettati al confine con l'Ungheria.

Se l’allarme (giustificato) e gli allarmismi (spesso ingiustificabili) non prevalessero su tutto, proveremmo a chiederci perché, di colpo, la “rotta balcanica” ha superato quella mediterranea per quantità e velocità di arrivo dei profughi. La ragione è semplice: anche se noi europei ci sentiamo presi d’assalto, i migranti arrivati fin qui dal Medio Oriente devastato dalla guerra in Siria e in Iraq erano pochissimi, rispetto a quelli sfollati nei Paesi dell’area. Ci sono 2 milioni di rifugiati siriani in Turchia, quasi un milione e mezzo in Libano, quasi un milione in Giordania. A questi vanno aggiunti milioni di siriani sfollati all’interno del proprio Paese e decine di migliaia passati in Iraq dove peraltro ci sono più di 3 milioni di profughi scappati davanti all’Isis e ospitati un po’ ovunque, ma soprattutto in Kurdistan (900 mila). C’è una emergenza ma è là, più che qua.

Una massa enorme di persone che hanno pochissime speranze di tornare alle proprie case. Proviamo a metterci nei panni di un siriano: crederemmo possibile una rapida sconfitta dell’Isis, la fine del conflitto, una soluzione politica, uno sforzo efficiente e coordinato per ricostruire la Siria? Certo che no. E’ fatale quindi che, a quattro anni dall’inizio di un conflitto che al momento pare senza fine, questa gente cominci a pensare a costruirsi una vita altrove. Questo è quello che a noi si presente come emergenza. L’improvviso tracollo della rotta balcanica testimonia proprio questo, anche perché i piccoli Paesi del Medio Oriente rischiano di cedere sotto il peso dei profughi (in Giordania sono ormai il 15% della popolazione, in Libano più del 25%) e quelli grandi come la Turchia, per una serie di ragioni anche poco nobili, si sono stufati di ospitarli e li incoraggiano a venire da noi.

Emergenza sì, ma politica

E’ quindi evidente che questa emergenza profughi è in realtà costituita da due emergenze complementari. Una alla foce: che cosa fare di loro una volta che si presentano ai nostri confini (che per l’Italia, svantaggiata dall’affaccio sul mare, vuol dire: una volta che lasciano le coste della Libia). L’altra alla sorgente: che cosa fare perché smettano di partire. Con la differenza che alla prima parte del problema si può rispondere con mezzi, appunto, di emergenza, come fanno, sia pure con intenti opposti, la Germania con l’accoglienza e l’Ungheria con il muro. Mentre alla seconda parte si può rispondere solo con una strategia politica di lungo respiro, che mobiliti la comunità internazionale per la stabilizzazione del Medio Oriente.

Purtroppo è stato fatto esattamente l’opposto. Tre guerre in dieci anni: Iraq, Libia e Siria (perché è ormai chiaro che Usa, Arabia Saudita e Russia hanno giocato la loro parte nella guerra civile). Tre interventi che hanno sconvolto ancor più una regione già sconvolta e hanno sostituito tre dittature con il caos, la distruzione e un settarismo etnico-religioso ovunque più accentuato di prima. L’Iraq è oggi la precaria sommatoria di tre pseudo staterelli, uno curdo, l’altro sciita, il terzo sunnita; la Siria è un carnaio di estremismi islamici; la Libia è il tutti contro tutti di una quindicina di tribù.

In queste condizioni è chiaro che continueranno a partire tutti quelli che appena potranno farlo, proprio come continuano a partire quelli che devono subire i gulag dell’Eritrea o il terrorismo di Boko Haram in Nigeria o il fanatismo degli shabaab in Somalia e così via. Ma è altrettanto chiaro che senza chiudere il rubinetto alla sorgente non si fermerà il flusso alla foce e i migranti continueranno a presentarsi ai nostri confini. Sarà emergenza senza fine.

Se davvero crediamo a quanto ci ripetiamo quando vendiamo il nostro vino agli americani o andiamo in vacanza in Asia, e cioè che il mondo è globalizzato, allora va messa rapidamente in cantiere una radicale riforma della politica dell’Occidente verso il Medio Oriente in primo luogo, e poi anche verso il resto del mondo in via di sviluppo. Per il nostro stesso bene, per far finire questa emergenza, dobbiamo pacificare, non eccitare, gli animi altrui. E far sì che “aiutiamoli in casa loro” non sia lo slogan dell’indifferenza ma, al contrario, di una solidarietà proficua per tutti. Come dicevano gli antichi: caro medico, prima di tutto cura te stesso.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 20 settembre 2015

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Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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