AL-NIMR E LO STATO CANAGLIA SAUDITA

al_NimrAlì al-Nimr, 21 anni, in Arabia Saudita condannato a essere decapitato, crocifisso e poi esposto in pubblico.

Ha 21 anni, si chiama Alì al-Nimr ed è stato condannato a essere decapitato, poi croficisso e infine, per quel che resterà di lui, a essere portato in giro per le strade per servire da lezione agli altri. Dove accade tutto questo? In qualche landa della Siria o dell’Iraq occupata dall’Isis? No, in un Paese amico dell’Italia come di tutte le democrazie occidentali, Stati Uniti in testa, per opera di un Governo cui vendiamo tutti un mucchio di armi tanto da averne fatto, quest’anno, il primo compratore di armi del mondo: l’Arabia Saudita.

Per capire meglio quanto accade, bisogna raccontare chi è il ragazzo condannato a quell’atroce fine. Alì è nipote di Sheikh Nimr al-Nimr, 53 anni, illustre esponente della minoranza sciita. Da sempre critico della monarchia degli Al Saud, lo Sheikh è stato tra i protagonisti delle proteste del 2011-2012, quell’abbozzo di Primavera che le autorità saudite hanno stroncato con la repressione. Arrestato nel luglio 2012, torturato, autore di un lungo sciopero della fame, Nimr al-Nimr è stato condannato a morte (anche lui decapitazione, crocifissione e gogna) il 15 ottobre del 2014. Ora tocca a suo nipote, arrestato durante i disordini del 2011. In carcere c’è anche il padre del ragazzo, Mohammad, colpevole di aver dato notizia della condanna a morte del fratello Sheikh con un tweet.

Al-Nimr e la Primavera Araba

A questo possiamo aggiungere qualche altro fatto. Nelle carceri dell’Arabia Saudita (29 milioni di abitanti) ci sono 30 mila prigionieri politici. Se e quando verrà eseguita, la decapitazione di Alì al-Nimr sarà la numero 90 del 2015, in netto aumento rispetto alla già sconvolgente quota del 2014: 88. Non molto tempo fa Raif al-Badawi, un blogger, è stato condannato a dieci anni di prigione e mille frustate per aver aperto in Rete una discussione sul ruolo dell’islam nel sistema giudiziario. Da moltissimi anni, per intenderci dal sostegno al terrorismo in Cecenia fino al finanziamento dell’Isis in Siria, l’Arabia Saudita è in prima linea nel fomentare e incrementare qualunque forma di estremismo (anche armato), in omaggio alla forma di islam, quella wahabita, che le fa da religione di Stato ed è con ogni probabilità la più intransigente di tutto la galassia islamica.

La domanda quindi è: perché l’Arabia Saudita non entra mai nelle liste degli “Stati canaglia”? Perché, al contrario, tutti corrono a omaggiare i suoi regnanti? Perché nessuna cancelleria alza la voce di fronte alla ricorrente barbarie di Stato saudita? Nell’ottobre dell’anno scorso, in Iran, una giovane donna di 27 anni, Reyhaneh Jabbari, fu condannata a morte e impiccata per aver ucciso l’uomo che aveva tentato di stuprarla. Una decisone orrenda, che provocò decine di appelli internazionali di politici e intellettuali. Vogliamo scommettere che per Alì al-Nimri non succederà nulla di simile? Perché?

L’impunità garantita ai sauditi ha radici lontane, economiche e politiche. Dall’inizio degli anni Settanta l’amicizia con il primo estrattore al mondo di greggio ha messo l’Occidente al riparo da un altro shock petrolifero come quello del 1973. E dalla fine dello stesso decennio, l’asse con i Paesi sunniti, primo fra tutti appunto l’Arabia Saudita, è servito a contenere il timore per l’Iran investito nel 1979 dalla rivoluzione khomeinista. A tutto questo, però, abbiamo pagato un caro prezzo: diffusione dell’islam radicale grazie ai petrodollari sauditi, terrorismo, instabilità, indifferenza ai diritti umani di cui, per altri Paesi, così tanto ci preoccupiamo. Se era una strategia non ha funzionato, perché oggi il Medio Oriente sta peggio che mai.

Qualche piccola avvisaglia di un cambiamento di rotta per la verità si vede. Di nuovo grazie al petrolio e al gas: con le nuove tecnologie di estrazione (il cosiddetto fracking), gli Usa e il Canada sono diventati autosufficienti, liberi da qualunque ricatto. E la tenacia con cui Barack Obama ha perseguito l’accordo sul nucleare con l’Iran, che tanto fa arrabbiare i sauditi, fa pensare che il Governo di Ryad pesi un po’ meno nelle strategie occidentali. Ma per Alì al-Nimr e tanti altri come lui sarà sempre troppo tardi.

Pubblicato su Avvenire del 20 settembre 2015

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Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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