La tragedia di Garissa, in Kenya, dove gli shaabab islamisti arrivati dalla Somalia hanno attaccato un campus che ospita quasi mille tra studenti e professori e ucciso almeno 70 studenti indifesi, ripropone tutte le angosce più tipiche di questo nostro tempo. La difficoltà di proteggersi rispetto a chi vuole a ogni costo colpire gli innocenti, come ci dimostra il fatto che il Governo keniano avesse comunque lanciato, nei giorni scorsi, un allarme a proposito delle università. La gestione delle frontiere, spesso insuperabili per chi soffre ma permeabili agli agenti del terrore. L’odio implacabile per l’identità e l’umanità dell’altro, rappresentato nel rito atroce delle decapitazioni, che ci risulta impossibile da comprendere e quindi arduo da prevenire. E anche l’idea del “nemico tra noi”, che dopo la Francia dei fratelli Kouachi e l’Italia dei reclutatori arrestati, potrebbe investire anche il Kenia, se fosse vero che la mente dell’attacco è il ricercato Mohamed Kuno, ex docente nel campus della strage.
Sono, da anni, i nostri incubi quotidiani, amplificati dalla velocità con cui le informazioni e le immagini si diffondono sul pianeta. Proprio per questo, però, diventa di giorno in giorno più insopportabile la cappa di silenzio che grava tuttora sul problema dei problemi: la crescita esponenziale delle persecuzioni per ragioni di fede e, dentro questa tendenza, il martirio incessante dei cristiani, di gran lunga il gruppo oggi più discriminato al mondo.
Risale a sole due settimane fa la strage nelle chiese di Lahore, in Pakistan. E’ di queste ore il dramma degli studenti in Kenya. L’attacco dei terroristi somali, inoltre, è stato condotto con un tratto di particolare crudeltà. I terroristi hanno badato a dividere gli ostaggi musulmani da quelli cristiani: i primi sono stati liberati, gli altri decimati o presi prigionieri. Per i cristiani, insomma, è l’ennesima Pasqua di passione, l’ennesima croce da portare. Con la fede quale unico sostegno e consolazione.
Cristiani senza patria
Tutti i più seri e accreditati centri di studio, infatti, confermano che l’accanimento contro i cristiani è il tratto più tipico degli ultimi decenni. Secondo il Pew Research Center di Washington, i cristiani sono discriminati in 139 Paesi, ovvero in circa il 75% dei Paesi ufficialmente riconosciuti. Si va dalle offese alle minacce, dall’emarginazione sul luogo di lavoro agli espropri, fino alle torture e alle uccisioni di massa. Come appunto in Pakistan e in Kenya in questi giorni, o come in Siria e in Iraq negli ultimi anni. E a questo proposito: non tutti i Paesi persecutori sono musulmani, ma comunque lo sono 41 dei 50 Paesi in cui essere cristiano è più pericoloso. Un dato che non può più essere ignorato.
Eppure la mobilitazione internazionale intorno a questa realtà è assai scarsa, per non dire nulla. Come se i nostri Paesi, molto impegnati nella discussione sul punto fino a cui estendere i diritti “loro”, avessero perso di vista la soglia minima dei diritti degli altri, tra i quali diventa sempre più decisivo quello a praticare liberamente la propria fede. Non si tratta di discriminare al contrario, ovvero di privilegiare in qualche modo la protezione dei cristiani rispetto a quella di altri gruppi sociali o di altre minoranze. Bisogna invece riconoscere che nella persecuzione dei cristiani, come anche i meri dati statistici dimostrano, sta una delle chiavi per affrontare e risolvere, oppure per subire e lasciar incrementare, la vera emergenza del nostro tempo. Sarà impossibile, infatti, costruire un sano rapporto con il mondo islamico (cioè, con un miliardo di persone) senza sciogliere questo nodo. Né avrà senso (e infatti non l’ha avuto sinora) la pretesa di portare qua e là la democrazia o il nostro stile di vita se prima non avremo chiarito, anche a noi stessi, che cosa significa in concreto e che cosa comporta in realtà ciò che vogliamo esportare.
Non è un caso se, laddove siamo intervenuti in questi anni, la situazione è poi peggiorata. E sia iniziata a peggiorare proprio con la discriminazione violenta dei cristiani che, in larghe parti dell’Asia, del Medio Oriente e dell’Africa sono il più affidabile barometro sociale. Possiamo anche ignorare questo nodo, così come abbiamo fatto finora. Ma allora dobbiamo rassegnarci a passare da una crisi all’altra, improvvisando di volta in volta senza ottenere risultati. Proprio com’è stato finora.
Pubblicato su Avvenire del 3 aprile 2015
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