Da Nahal Oz – Nel kibbutz, fondato nel 1953, vivevano 350 persone, che questa guerra ha ridotto a 70. Al di là della rete, dopo 600 metri di sabbia e sterpaglie, già cominciano le case di Gaza. Sono a Nahal Oz, kibbutz agricolo vecchio stile (qualche centinaio di mucche da latte, allevamento di polli, frutta, ortaggi) su cui, nei quasi due mesi di guerra, sono piovuti centinaia di razzi sparati dalla Striscia.
Rachel, 77 anni, mi fa guida. A parte i militari morti in combattimento (64), sono morti a causa dei razzi 3 civili israeliani: in questo kibbutz è stato ucciso Dani, un bambino, colpito al capo da una scheggia mentre cercava di raggiungere il rifugio, ed è stata ferita gravemente una donna, portata alle soglie della morte da un missile che attraverso il tetto le era esploso in casa. “Il nostro problema”, spiega Rachel, “è che siamo troppo vicini alla Striscia, quindi non abbiamo quei dieci secondi per metterci al riparo al suono dell’allarme che sono considerati il tempo standard. Noi qui ne abbiamo al massimo tre”.
Essendo il problema dei razzi aperto da quasi 15 anni, la gente del kibbutz ha sviluppato quasi un’abitudine. Anche nei giorni peggiori della guerra sono state fatte con regolarità le tre mungiture al giorno, e stiamo parlando di giorni in cui pioveva una ventina di razzi. Eppure mai come questa volta il panico si è diffuso, ma come questa volta tanta gente ha lasciato il kibbutz.
Il kibbutz e i tunnel di Hamas
“Il problema è stato la scoperta dei tunnel scavati da quelli di Hamas per superare il confine”, spiega Rachel, “una novità che ha terrorizzato molti. C’è stato anche chi, a un certo punto, si è convinto di avere un tunnel sotto casa. Abbiamo dovuto chiamare l’esercito, che ha scavato in giardino fino a dimostrare che non c’era niente”.
Dal confine del terreno del kibbutz, si vedono distintamente i cippi che l’esercito ha messo laddove cinque soldati sono stati sorpresi e uccisi dai miliziani sbucati da sotto terra: saranno a duecento metri da dove parliamo. Un’angoscia nuova che è dilagata per tutta quella che qui si chiama “la fascia di Gaza” e che mai si è sentita così esposta: 85 piccole comunità (kibbutz, villaggi, modesti agglomerati agricoli) di solito con poche centinaia di persone, sparse lungo i 40 chilometri di “confine” con la Striscia.
Le cose vanno un po’ meglio in centri più grossi come Sderot (25 mila abitanti), dove l’allarme è stato gestito in modo più organizzato. Ma anche qui, la gente si è abituata a non chiudere più la porta di casa, per permettere anche al passante sconosciuto di rifugiarsi al coperto in caso di allarme.
Ora il kibbutz deve gestire tre traumi. Il primo è quello della protezione: in tutte le case ormai c’è una “safe room” in cui andare a chiudersi quando arrivano i razzi; e tutte le strutture dedicate a bambini e ragazzi (asili, scuole, parchi giochi…) o sono inglobate dentro alte barriere di cemento o hanno un rifugio a un passo.
Il secondo è quello della divisione della comunità: chi se n’è andato forse non tornerà e, com’è inevitabile, non è giudicato molto bene da chi è rimasto. “Ho cinque figli”, dice Rachel, “tutti cresciuti nel kibbutz quando vivere qui era meraviglioso, una garanzia di felicità. Adesso sono adulti, vivono altrove e non passa giorno in cui non cerchino di farmi andar via”. Cosa che, ovviamente, non succede.
Il terzo è quello della sopravvivenza economica. Il kibbutz aveva appena costruito 5 nuove case: tre delle famiglie che le avevano “prenotate” hanno rinunciato. Essendo così vicino alla Striscia e avendo a poca distanza uno dei valichi tra Israele e Gaza, Nahal Oz è stato punto di passaggio per i mezzi corazzati, che hanno devastato i campi tutto intorno. Addio raccolto.
Ma forse l’emergenza più viva, che accomuna israeliani e palestinesi abbarbicati intorno a questo “confine”, è la convinzione che questa guerra non abbia risolto nulla, e che un’altra sia alle porte. Lavorare su questo sarà durissimo.
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