Prima o poi, con l’energia, doveva succedere. L’accordo con cui la nostra Cassa depositi e prestiti cede al ramo affari internazionali della State Grid Corporation of China (il colosso statale che gestisce reti di distribuzione dell’energia elettrica in 26 delle 31 province della Cina) il 35% di Cdp Reti Spa (che a sua volta detiene il 30% di Snam, gruppo leader nel settore del gas, e il 29,85% di Terna, operatore specializzato nella trasmissione dell’energia elettrica) è solo una tappa della “lunga marcia” con cui la Cina tenta di controllare e consolidare gli approvvigionamenti di energia che tengono in vita il suo motore economico. Una marcia che infine ha fatto sosta anche dalle nostre parti.
Lo sviluppo cinese, così impetuoso negli ultimi vent’anni, continua infatti ad avere un punto debole: consuma, dal punto di vista energia, molto più di quanto possieda. Importare è dunque una necessità e, nello stesso tempo un rischio strategico. L’anello debole di un sistema fatto di autoritarismo politico, pianificazione astuta, masse di lavoratori a basso costo e scarsissimi diritti e scarsa tutela per la salute e l’ambiente, che pareva monolitico. La dirigenza di Pechino ha suonato l’allarme in un momento preciso: il 2009, anno in cui la Cina è diventata (consumando energia equivalente a 2.525 tonnellate di petrolio, contro le 2.170 degli americani) il Paese più “energivoro” del mondo, superando gli Usa che detenevano il primato da un secolo.
Energia, le tre leggi fondamentali
Da allora lo shopping cinese in energia, grazie anche alle enormi riserve di valuta pregiata, è stato continuo: prima le Filippine (2009, accordo per gestire per 25 anni tutta la rete nazionale di distribuzione elettrica), poi il Brasile, l’Australia, il Portogallo… Un’espansione massiccia ma oculata, guidata da tre principi fondamentali: approfittare della crisi di liquidità causata in molti Paesi dalla congiuntura economica globale (“… che offre interessanti opportunità di penetrazione dei mercati”, come scriveva appunto State Grid News, la pubblicazione del colosso con cui la nostra Cassa ha appena firmato); puntare all’Europa e alle sue aziende, tecnologicamente e managerialmente avanzate; investire in beni reali e strutture funzionanti e non più in titoli di Stato. Una strategia che Pechino ha replicato ovunque i suoi emissari abbiano messo radici e in qualunque settore dell’economia abbiano deciso di operare. In Africa hanno acquistato terre fertili ma anche costruito oleodotti e ferrovie. Con la Russia hanno pattuito forniture di gas e petrolio ma anche firmato contratti per terminali del gas liquefatto. In Europa hanno rilevato, tra le tante cose, anche grandi marchi della moda.
L’accordo con la nostra Cassa depositi e prestiti, come si vede, corrisponde perfettamente a tale identikit. Per l’Italia è un affare che vale due miliardi subito e, in prospettiva, promette di rafforzare l’intesa e gli scambi con la Cina, di cui già oggi siamo il quinto partner commerciale in Europa. Non a caso la delegazione guidata a Pechino dal ministro dell’Economia Padoan ha sottolineato il valore del protocollo d’intesa siglato, a lato dell’accordo con State Grid, con la Banca cinese per lo sviluppo, per la promozione degli investimenti in Italia.
Resta comunque il fatto che, come anche le vicende internazionali confermano, l’energia non è una merce qualunque. E gli investimenti in energia non sono investimenti qualunque, soprattutto se a farli è un Paese come la Cina. Sarà dunque bene prepararsi ad avere a che fare con un “socio” grintoso, lungimirante e molto interessato. Avere il controllo nelle percentuali azionarie è importante ma non è tutto. In particolar modo se dall’altra parte c’è un partner che, a livello globale, pesa tanto più di te.
Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 25 luglio 2014
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