Ora che i guerriglieri qaedisti avanzano verso Baghdad dopo essersi impadroniti di Mosul e della regione petrolifera del Nord (l’altra area ricca di greggio è all’estremo Sud), si registrano alcuni buffi fenomeni: molti si ricordano improvvisamente che l’Iraq esiste; altri cominciano a sospettare che la strategia americana nei confronti del Medio Oriente sia un disastro. Bene, bravi, sette più.
Non è mai troppo tardi per ricordarsi che, nel 2002-2003, c’era qualcuno che osava sostenere che le armi di distruzione di massa in Iraq non c’erano e che la guerra avrebbe prodotto un disastro. Quasi esattamente gli stessi che, più di recente, dicevano che riempire di armi gli oppositori e i ribelli della Siria forse non era la soluzione giusta, visto che quelle stesse armi passavano quasi direttamente ai guerriglieri amici di Al Qaeda.
Questi, però, non possono essere i giorni dei rimpianti. Questi sono i giorni in cui dobbiamo soprattutto cercare di agire per salvaguardare due Paesi, Iraq e appunto Siria, che sono stati spinti al tracollo non dall’intolleranza religiosa ma dalla stupidità politica. I regimi che li hanno retti negli anni più recenti sono stati attaccati non perché tirannici (Siria) o non affidabili (Iraq), pur essendo in effetti tirannici e non affidabili. Sono stati attaccati perché sciiti, in un Medio Oriente in cui la Casa Bianca di Obama ha fatto di tutto per proteggere e favorire la maggioranza sunnita, soprattutto quella rappresentata dalle monarchia petrolifere del Golfo.
Iraq in mano ad Al Qaeda
Per ottenere questo scopo non ci si è fermati di fronte a nulla: approvata la repressione militare in Bahrein, approvata l’attività di sostegno ai gruppi radicali da parte dell’Arabia Saudita, approvata la fornitura di armi e denaro ai qaedisti ostili ad Assad in Siria. Grandi salamelecchi del Presidente americano al regime saudita, uno dei più intolleranti e integralisti al mondo. Lo stesso Presidente che poi, a Varsavia, ha pure osato presentarsi come il campione della libertà e della pace.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La Siria è ormai un terreno di stragi ingovernabile. L’Iraq, di questo passo, si avvia alla frammentazione: il Kurdistan protetto dagli Usa al Nord; il centro sunnita dominato dai qaedisti; il Sud sciita per conto proprio, se sarà in grado di resistere, oppure spinto a diventare un annesso dell’Iran anch’esso sciita.
In questo carnaio a soffrire per primi e di più sono, ovviamente, i cristiani. Ovviamente perché minoranza, quindi più indifesi; e ovviamente perché più facilmente identificabili con lo “straniero”, con quell’Occidente che quasi sempre mette le mani e peggiora le cose. La persecuzione dei cristiani (e ricordiamo qui i casi della siriana Aleppo e dell’irachena Mosul, or non è molto grandi centri del cristianesimo mediorientale, oggi luoghi da cui i cristiani cercano solo di scappare) è un dramma doppio: perché la sofferenza della minoranza prelude a una sofferenza ancora maggiore della maggioranza.
In tutto il Medio Oriente, infatti, le comunità cristiane sono, con la loro attitudine alla tolleranza e la loro abitudine alla convivenza, una fondamentale intercapedine tra musulmani sunniti e musulmani sciiti, che difficilmente riescono a vivere insieme in pace. Eliminarle è l’interesse dei fondamentalisti. Ma la loro scomparsa apre le porte a futuri e ancor più atroci massacri. Proprio come è accaduto in questi anni in Iraq, dove i cristiani sono stati decimati e spinti all’esilio dalla guerra del 2003 e dalle seguenti violenze. Molti di loro avevano trovato rifugio proprio in Siria, da dove ora vengono cacciati dalle stesse milizie islamiste che stanno intanto occupando l’Iraq.
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