2.fine – Lo sanno bene i politici europei e le autorità della Ue che, da quando Putin e Xi Jinping si sono stretti la mano al Cremlino, hanno improvvisamente cambiato registro, anche se il gas “cinese” dovrebbe uscire da giacimenti diverse da quelli che ora producono quello “europeo”. Nessuno parla più di sanzioni. La Merkel? Tace. La Ashton? Sparita. José Barroso, presidente della Commissione Europea, tenta la mozione degli affetti: “Siamo sicuri che Mosca terrà fede ai patti”. Guenther Ottinger, commissario europeo al’Energia, dice che “dobbiamo evitare di cadere vittime di ricatti politici e commerciali”, aggiungendo però che la questione della Crimea deve restar fuori dai negoziati perché “li sovraccaricherebbe troppo”. Se fosse un fumetto, nel palloncino si leggerebbe: “Ma chi ce l’ha fatto fare?”. Perché gli europei oggi si rendono conto di due cose. La prima è che la sicurezza energetica dei nostri Paesi è esposta non solo alle decisioni del Cremlino ma anche a quelle di Kiev. In altre parole: la Russia potrebbe ridurre le forniture all’Europa per premere sull’Ucraina, ma anche l’Ucraina potrebbe bloccare o deviare il flusso per “ricattare” Mosca e ottenere prezzi migliori, come peraltro successe in piccola misura nel 2006 e 2009. La seconda è che dalla spaccatura tra Unione Europea e Russia apertasi con la crisi ucraina, solo uno trarrà profitto: gli Usa, che in un colpo solo avranno creato problemi all’una (rivale commerciale) e all’altra (rivale politica).
Filo doppio tra Cremlino e Bruxelles
Al netto di tutte le sciocchezze che si sono sentite in queste settimane (tipo: arriverà lo shale gas dagli Usa…), la realtà è che Russia ed Europa sono legate a filo doppio. La Russia ci vende il 40% del gas che consumiamo, ma i nostri euro generano l’80% dei profitti di Gazprom, l’azienda di Stato russa. Un blocco totale dei gasdotti in inverno toccherebbe tutta l’Europa, un blocco parziale soprattutto l’Europa dell’Est e i Balcani, con “buchi” rispetto alla domanda tra 20 e 40% in Polonia, Romania, Croazia, Serbia e Grecia e dell’80% in Finlandia, Lettonia ed Estonia. Ma una riduzione tanto drastica degli incassi creerebbe problemi enormi al bilancio della Federazione russa, che si regge grazie all’export di gas e petrolio. Bruxelles e il Cremlino, insomma, non possono litigare neanche volendo. Di questo passo l’Ucraina si troverà tra breve nella scomoda posizione del cerca guai, dell’invitato che imbarazza gli altri commensali. Anche perché le sue attuali richieste, certo motivate dallo sprofondo del bilancio statale che Petro Poroshenko eredita da Viktor Yanukovich, hanno una scarsa base logica e poche possibilità di essere accolte in caso di arbitrato internazionale. Quando Yanukovich, nel dicembre 2013, decise di voltare le spalle alla Ue ed entrare nell’Unione Euroasiatica offerta da Putin, il Cremlino gli ridusse di un terzo il prezzo del gas, facendolo scendere a 268,5 dollari per mille metri cubi. Nell’accordo, però, era prevista una revisione trimestrale delle condizioni. E poiché in quel periodo Yanukovich, caro a Putin, fu cacciato, Gazprom, ovvero il Cremlino, pensò bene di riportare il prezzo del gas per l’Ucraina a 385,5 dollari, cioè a livelli da Europa occidentale (382). Ora l’Ucraina che ha cacciato Yanukovich chiede di pagare le tariffe ottenute da Yanukovich. E lo chiede al Paese che intanto accusa di ogni nefandezza. Difficile che ce la faccia. Ancor più difficile che riesca o voglia pagare il debito per le forniture arretrate che, sempre secondo il Cremlino, ammonta a 5,2 miliardi di dollari. Urge, come si vede, una trattativa. Quel dialogo a tre, Ucraina-Ue-Russia, che era l’unica soluzione ragionevole anche quando i politici europei andavano a Kiev a godersi i bagni di folla di piazza Maidan. Ma tra un rimpianto e l’altro, a Donetsk si spara e nelle cancellerie si firma. 2.fine Leggi anche la prima puntata di “Il gas che sconvolge Russia, Ucraina ed Europa” Segui anche “Gerusalemme, Damasco e dintorni”, il mio blog sul Medio Oriente