TRA RUSSIA E UE CI RIMETTE L’UCRAINA – 1

Un'immagine dei recenti disordini a Kiev.

C’era una volta l’Ucraina, il Paese dove le gente era disposta a soffrire, combattere e anche morire pur di entrare nell’Unione Europea… A noi occidentali, europeisti stanchi e disillusi, la favola costruita intorno ai tumulti di Kiev piace molto, è inevitabile. Ma chi può crederci?

Un'immagine dei recenti disordini a Kiev.

Chi può davvero pensare che la mancata adesione al trattato di associazione alla Ue, in cambio peraltro di un trattato con la Russia che di fatto regala 12 miliardi di euro alle casse dell’Ucraina (che non sarà mai in grado di restituirli) e uno sconto del 30% sulle proprie forniture di gas e petrolio (pari quasi al cento per cento del fabbisogno energetico ucraino) basti a innescare un simile conflitto? Anche le leggi liberticide, oggi al centro delle polemiche anche internazionali, sono arrivate dopo due ondate di manifestazioni e hanno, semmai, rivitalizzato la protesta. Certo non l’hanno generata.

Se leggessimo più attentamente i colori della protesta, vedremmo che l’ansia di avvicinarsi a Bruxelles ha come propellente decisivo l’antico desiderio di allontanarsi da Mosca. Non a caso la punta di lancia, nell’organizzazione e nella gestione della piazza, la fanno i militanti di Svoboda, il movimento della destra nazionalista che incarna, lei sì “europea” come oggi sono i vari Le Pen, Wilders e Farage che tutti temono vincenti alle elezioni Ue di maggio, un nazionalismo incapace di mediazioni.

Nulla di sorprendente in un Paese dove i sovietici sterminarono milioni di persone con le carestie dei primi anni Trenta, colonizzando poi il “granaio d’Europa” (che da solo provvedeva a un quarto della produzione agricola dell’Urss) con la solita campagna di russificazione. Gli ucraini lo chiamano “holodomor”, che alla lettera vuol dire “morte per fame” ma suona per loro come “olocausto”.

Il risultato è un Paese diviso, addirittura geograficamente diviso. A Est del Dnepr, la grande via d’acqua che collega il Baltico al Mar Nero, c’è l’Ucraina russofona, russofila e di stampo russo (ovvero, sovietico riformato) anche nella struttura economica: miniere, quel ch’è rimasto dell’industria pesante, manifatture. A Ovest, maggioritaria nei numeri, la parte che guarda all’Europa, che ha ripreso con orgoglio a parlare ucraino, che lavora nei servizi e in un agricoltura sempre più moderna.

Il vero elemento unificante, almeno finora, è anche il più controverso: la dipendenza economica da Mosca. Al di là dei 1.576 chilometri di confine terrestre, c’è una Russia che per l’Ucraina vale il 20-22% sia nell’import sia nell’export  e, come si diceva, la quasi totalità delle forniture energetiche. E’ chiaro che la prospettiva europea rappresenta l’alternativa tanto attesa. Soprattutto, ovvio, agli occhi degli ucraini che sperano di collegarsi alle reti europee dei servizi o di approfittare della generosa politica agricola dell’Unione.

Su questa realtà interna si inseriscono, con effetti finora disastrosi, le manovre esterne. L’Unione Europea si è schierata con l’opposizione all’attuale regime prima ancora che Yanukovic voltasse la schiena a Bruxelles per tornare all’ovile russo. Porre come condizione per la firma del trattato la liberazione di un politico come la Julia Timoshenko, considerata “prigioniero politico” ma prima del carcere sconfessata dagli ucraini in libere elezioni, poteva essere solo un clamoroso infortunio diplomatico o il modo per spingere Kiev a rifiutare le forche caudine della sovranità limitata e della sconfessione internazionale, come in effetti è avvenuto.

Il dubbio è legittimo perché le trattative  tra Ue e Ucraina sono andate avanti per almeno dieci anni, essendo partite prima ancora della cosiddetta Rivoluzione Arancione del 2004, e hanno destato la perplessità di molti autorevoli rappresentanti della Ue, per esempio Olli Rehn, commissario per gli Affari economici e monetari. Bisognerebbe anche capire se la Ue, cui i problemi non mancano, sarebbe in grado di sostenere l’impegno per l’integrazione dell’Ucraina che, nel 2008 e nel 2010, ha contrattato con il Fondo monetario internazionale aiuti per oltre 30 miliardi di dollari.

1 – continua 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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