SIRIA E ARMI CHIMICHE: OBAMA IMITA BUSH

Combattimenti ad Aleppo.

Sarà che sulle denunce anglo-americane delle armi di distruzione di massa (vedi Irak 2002-2003) pesa il ricordo di qualche dubbio precedente, ma risulta difficile accogliere la svolta di Barack Obama sulla Siria senza ammettere qualche perplessità. Come si sa il Presidente, appoggiato dal premier inglese Cameron, sostiene che Assad ha usato le armi chimiche, soprattutto il gas Sarin, e così facendo ha superato la “linea rossa” fissata dalla Casa Bianca: ora gli Usa si sentono liberi di fornire assistenza militare e armi agli insorti siriani.

Combattimenti ad Aleppo.

Un primo dubbio sorge sul merito della questione. Chi dice che Assad ha usato i gas? Lo dicono gli insorti, gli americani e gli inglesi. Manca, almeno per ora, la conferma di una fonte indipendente. E vale la pena ricordare quanto successo giusto un mese fa: Carla Del Ponte, il magistrato svizzero che lavora per la Commissione Onu d’indagine sulla Siria, disse che forse i gar erano stati usati ma che gli indizi puntavano semmai verso i ribelli. Fu smentita dai portavoce della stessa Commissione, che però dissero: “Non sono state raggiunte prove conclusive sull’uso di armi chimiche in Siria da alcuna delle parti coinvolte nel conflitto”.

In un mese molte cose possono cambiare, certo, e Bashar al Assad è abbastanza disperato per non negarsi nulla in termini di violenza e crudeltà. Però la decisione di Obama arriva proprio nel momento in cui Assad pare meno disperato di prima: dopo mesi in cui la caduta del tiranno pareva imminente, le truppe a lui fedeli hanno riconquistato Qusayr, città strategica nel centro del Paese, e si apprestano a dare l’assalto ad Aleppo. Sul campo Assad sta vincendo e il momento scelto da Obama per cambiare strategia pare un po’ troppo puntuale.

Fin qui, niente di sorprendente: sono le ragioni della politica. Quante volte si è trovato un “casus belli” o un inghippo diplomatico per eliminare un regime odioso e meritevole di sanzione? Calate nella situazione reale del Paese e della regione, però, le perplessità aumentano e diventano meno di principio e più concrete. A chi, per cominciare, fornirebbero armi gli Usa e la Gran Bretagna? Si presume all’Esercito libero siriano (peraltro lacerato da divisioni e rivalità) e non ai gruppi armati dell’estremismo sunnita che opprimono la popolazione e fanno strage di civili come l’esercito e i miliziani di Assad. Ma come impedire, poi, che assino dagli uni agli altri? Come controllare i porosi confini interni al Medio Oriente e impedire che quelle armi vadano ad alimentare altre stragi in Irak o in Libano, ad accendere focolai di terrorismo in Giordania, a mettere ancora più a rischio Israele?

L’insidia è grande. Perché il conflitto che si combatte in Siria non è più quello tra il bene e il male, tra chi chiede più libertà e democrazia e chi vuole difendere a tutti i costi il proprio privilegio. La Siria è diventata il campo della battaglia tra i sunniti (che sono il 90% di tutti i musulmani) e gli sciiti; tra i regimi del petrolio e del deserto, capitanati dall’Arabia Saudita e alleati dell’Occidente, e i regimi della Mezzaluna fertile (Iran, Siria, Libano), che l’Occidente tende a considerare “Stati canaglia”. I sunniti tentano la spallata decisiva, gli sciiti non sono disposti ad arrendersi. Buttare armi in questo calderone non è come gettare altre fascine nel fuoco? Non sarebbe stato più utile arrivare alla Conferenza internazionale di Ginevra, che già nasceva debole e ora nasce morta, e offrire alla Russia le garanzie necessarie perché abbandoni Assad, la cui uscita di scena è condizione indispensabile per qualunque ipotesi di pacificazione?

In ogni caso, la mossa di Obama è a dir poco tardiva. La stessa cosa poteva esser fatta un anno e mezzo fa, risparmiando al popolo siriano lunghe e atroci sofferenze. L’Unhcr, facendo il computo delle vittime, avanza l’ipotesi minima di 93 mila morti, tra i quali almeno 6.500 bambini. Per loro, la “linea rossa” è arrivata molto tempo fa.

Pubblicato su Avvenire del 15 giugno 2013.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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