IL SOGNO OTTOMANO DI ERDOGAN

Istanbul, un'immagine delle proteste per il Parco Gezi.

L’islamismo, o come i giornali occidentali amano scrivere la “reislamizzazione della Turchia”, c’entra con le proteste dei giovani turchi come i cavoli a merenda. A meno di non credere che il blocco delle vendite di alcolici di notte e il divieto alle hostess delle linee aere di mettersi il rossetto siano ragioni sufficienti per scatenare la tempesta che, dal parco Gezi di Istanbul, si è presto diffusa in tutto il Paese, con morti, feriti e centinaia di arresti.

Istanbul, un'immagine delle proteste per il Parco Gezi.

Al contrario: la demagogia islamica del premier Erdogan, tonante nei toni e prudente nella pratica, unita allo sviluppo economico che le sue politiche hanno innescato (nel 2008-2009, al culmine della crisi globale, la Turchia cresceva del 4,7% l’anno, e in seguito è cresciuta del 9%), è stata un argine all’islamizzazione assai più efficace dei colpi di Stato inflitti in serie al Paese dai generali “laici”.

La protesta si è scatenata non per motivi religiosi ma, molto più concretamente, perché è saltato il patto sociale che per dieci anni ha permesso a Erdogan (premier dal 2003) di accentrare sempre più i poteri in cambio di un maggiore benessere. Ora che un po’ di benessere è arrivato, la gente (soprattutto nelle grandi città) non teme più né le ristrettezze di prima né i carri armati dell’esercito, e quindi torna a reclamare i propri diritti, individuali e collettivi. Lo dimostra il fatto che ai giovani si sono ora uniti i sindacati, prima fra tutti la potente federazione (250 mila iscritti) del pubblico impiego.

La domanda vera è: perché proprio adesso? La risposta forse è: perché Erdogan vuole proiettare la Turchia nel “giro grosso” delle potenze politiche ed economiche e ha più che mai bisogno di compattare dietro di sé, anche con la forza, l’intero Paese. La Turchia voleva entrare nella Ue. Ha chiesto l’Expo del 2015 per Smirne, poi sconfitta da Milano, ed è in gara con Istanbul per le Olimpiadi del 2020. Per la prima volta, nel caso della Siria, tenta una vera politica da potenza regionale. Ha ottenuto le scuse di Israele per il caso della Freedom Flotilla e della nave “Mavi Marmara”. In breve, ambisce a sottrarre all’Arabia Saudita il ruolo di Paese guida dell’islam progredito e di interlocutore privilegiato degli Usa e dell’Occidente. Un sogno neo-ottomano che il Paese non sente e, in ogni caso, non può e non vuole assecondare se il prezzo è più fatica e meno libertà. Il caso del parco Gezi lo dimostra.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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