E’ difficile immaginare qualcosa di più americano di una pubblica competizione sportiva. Di un evento, cioè, che unisce la passione per il cimento fisico al gusto per il ritrovo collettivo, per l’allegria socialmente organizzata e distribuita. Colpendo la maratona di Boston, dunque, gli attentatori hanno sorpreso e ferito gli Usa in uno dei loro momenti insieme più tipici e più intimi. In un giorno che, paradossalmente, era molto più “americano” di tanti altri con molto più clamore dedicati allo sport, come il Superbowl iperpubblicizzato e superprotetto o le grandi finali del basket e del baseball.
Ma i terroristi ceceni che hanno ucciso tre persone e ne hanno mutilate o ferite altre 170, hanno colpito al cuore l’America per almeno altre due ragioni. Il grande Paese, per l’ennesima volta, si scopre più vulnerabile quando si apre al resto del pianeta. Tra i 26.839 iscritti e i 23.336 effettivamente partiti c’erano atleti e sportivi arrivati da decine di Paesi diversi, compresi 227 italiani. Come all’epoca delle Torri Gemelle, quando gli aeroplani kamikaze di Al Qaeda uccisero civili di 70 nazionalità, chi attacca sa di poter colpire l’America e insieme anche il resto del mondo, e di garantire così ai propri atti efferati un effetto amplificatore che in nessun altro Paese potrebbe ottenere.
Questo gli americani lo sanno, anzi: lo sentono. Ancor più da quando, l’11 settembre del 2001, gli attentati simultanei a New York e Washington e l’aereo precipitato in Pennsylvania certificarono col sangue di 2.974 vittime la fine del mito dell’inviolabilità del loro territorio nazionale. Non sembri esagerato o irrispettoso il paragone tra il 2001 e quanto avvenuto due giorni fa a Boston, perché le angosce di oggi sono eredi di quelle di allora, perché Barack Obama che dice “Ogni volta che una bomba è usata contro i civili, si tratta di un atto di terrorismo” replica il George Bush che nella scuola di Sarasota, in Florida, ascolta attonito e incredulo le notizie drammatiche in arrivo da New York.
Anche sul termine “terrorismo”, così intensamente usato in queste ore, occorre intendersi. E’ chiaro che gli americani, dalle massime autorità al cittadino della strada, intendono soprattutto un attacco organizzato dall’esterno, se non proprio dall’estero. Da qualcuno che odia loro, il loro sistema e il loro Paese, e non da qualcuno che, dall’interno, detesta il Governo o qualche sua decisione. Come furono, per fare solo un paio di esempi comunque legati alle bombe, Timothy McVeigh (168 morti a Oklahoma City nel 1995) o Eric Rudolph (1 morto ad Atlanta nel 1996). E questo è un lascito indubbio dell’11 settembre e della cicatrice che quegli attentati hanno impresso nella coscienza collettiva degli Stati Uniti.
Una sicurezza, anzi, un’innocenza perduta ai propri occhi che le imponenti e peraltro efficaci misure dell’ultimo decennio non sono mai riuscite a ricostruire. Tra il 2001 e l’altroieri, ben 380 individui sono stati arrestati per aver cercato di mettere a segno negli Usa attentati di stampo terroristico. Solo 77 di loro erano già riusciti a procurarsi l’esplosivo o un qualunque componente necessario alla costruzione di una bomba. In questi ultimi 12 anni, un solo attentato è andato a segno, nel 2004: quello del razzista bianco Dannis Mahon, che spedì un ordigno a un professore nero di Scottsdale (Arizona), ferendolo gravemente. Ma non c’è statistica che possa tranquillizzare il popolo che credeva di essere amato e si scoprì odiato, che pensava di essere un modello e si è trovato a fare da bersaglio.
Pubblicato su Avvenire del 18 aprile 2013