IL POSTO FISSO? AI SOLITI NOTI

Pietro Ichino con il ministro Fornero.

La precaria che ha messo sotto accusa Giulia Ichino, 34 anni, figlia di Pietro Ichino (ex senatore del Pd e ora candidato con Mario Monti), “colpevole” di essere stata assunta alla Mondadori all’età di 24 anni, essendo guarda caso figlia di una persona importante che per di più molto teorizza la cosiddetta “flessibilità” del mercato del lavoro, ha riaperto una vecchia polemica. E per fortuna.

Pietro Ichino con il ministro Fornero.

Ovviamente, la questione non riguarda Giulia Ichino, così come non riguardava a suo tempo la figlia del ministro e docente universitario Fornero, anche lei a suo tempo abbastanza stizzita nei confronti dei giovani precari o disoccupati, invitati a non essere “choosy”, cioè schizzinosi. E ribadisco l’ovviamente, anche se la solidarietà di classe dei nomi celebri si è subito mobilitata. Alcuni scrittori importanti sono comparsi a difendere le capacità della Ichino, peraltro mai messe in discussione, nemmeno dalla precaria. Michele Serra è partito a moraleggiare sul “rancoroso borbottìo” intorno a “casi personali”. Gli uni e gli altri dimentichi che è la difesa ad personam a trasformare in caso personale quello che invece potrebbe essere un utile esempio per un utile discussione.

Anche il senatore Ichino, sul suo sito, ribadisce di non aver mai raccomandato nessuno. Facendo, appunto, lo stesso errore. Proprio perché la questione non riguarda sua figlia Giulia, dovrebbe evitare di difendere in quel modo lei e se stessa e chiedersi piuttosto perché  è partita l’accusa.

Nel caso, provo io a suggerire qualche ipotesi di discussione.

1. In tutta Europa, con la sola esclusione di Paesi piccoli come Austria e Danimarca, la disoccupazione giovanile è una questione drammatica, con percentuali a doppia cifra. Quindi, cari intellettuali, non trovate che ci sia qualcosa che non va nel sistema? Non vi pare naturale che chi è tagliato fuori guardi con una certa invidia a chi, invece, entra nel modo del lavoro presto e dal portone principale?  E voi, intellettuali di punta, che cosa avete da dire a questi giovani?

Giulia Ichino.

2. Essendo anch’io un borghese, ho avuto spesso occasione negli ultimi anni di dibattere sul tema del lavoro precario con amici, colleghi, vicini di casa, compagni occasionali di viaggio in treno, persone che avvicinavo per lavoro, ecc. ecc. E sempre, sempre, sempre ho verificato questo: gli interlocutori che più esaltavano “flessibilità”, “mobilità” e “precarietà”, erano anche quelli con i lavori più stabili e meno mobili, e sicuramente quelli i cui figli non erano né mobili né precari. Una sfortunata combinazione? Non credo. Vorrei sapere, per esempio, quanti sono i giovani precari tra i parenti stretti del senatore Ichino. O tra quelli di Michele Serra.

3. Considero un delitto delle forze politiche decenti aver lasciato alla sinistra estrema o al sindacato più incazzato l’affermazione di una semplice verità: la precarietà fa schifo. E’ una disgrazia. E’ un male da combattere. Da quando l’aggettivo “precario” indica una situazione positiva? Un ufficiale che dica al generale “la situazione è precaria”, mica lo tira sù di morale. E un padre che dicesse ai figli “la nostra famiglia è precaria”? Essere precario è orrendo. E se questo tocca a un giovane, che deve costruirsi una vita e un futuro, è doppiamente orrendo.

4. A tutto questo, si aggiunge la particolare inclinazione italiana a stabilire nobili principi e poi a pervertirli secondo l’interesse privato del momento. Qui da noi si è cominciato parlando di “mobilità”, poi si è passati alla “flessibilità” per approdare trionfalmente alla “precarietà”. Facendo conveniente confusione tra concetti assai diversi.  Mobilità vuol dire potersi muovere sul mercato del lavoro, che invece in Italia è il più rigido del mondo. Muoversi da un posto all’altro è difficilissimo; dal lavoro si esce solo per licenziamento o chiusura dell’azienda (perché altrimenti non ti schiodano nemmeno le cannonate); nel lavoro non si entra più, come dimostra il 37,1% di giovani disoccupati registrato dall’Istat nel novembre 2012. Flessibilità vuol dire essere disponibili ad assumere mansioni diverse, o ad accettare condizioni diverse, all’interno di uno stesso lavoro. E anche qui, tra le rigidità dei sindacati e il ritardo delle aziende, non siamo messi bene. La precarietà è esattamente ciò che si ottiene quando non c’è mobilità e non c’è flessibilità. E la si ottiene non per caso: conviene alla classe politica, che trasferisce sulle famiglie parte del costo dello Stato sociale; e conviene alle aziende, che usano per lavori anche qualificati personale giovane e pagato meno, eliminabile secondo bisogna.

4. Questo, ricordiamolo bene, è il Paese in cui per anni una classe politica repellente ha esaltato il valore del lavoro manuale, per poi scoprire che nessuno si iscrive più all’università e che in Italia non si fa più ricerca. Quella ricerca che invece si fa all’estero con scienziati italiani, laureati in Italia e poi emigrati perché qui dovevano diventare tutti muratori o panettieri. Il messaggio che arriva ai giovani è, nel migliore dei casi, confuso. Nel peggiore, disonesto. E in ogni caso trasmette loro la sensazione che in Italia le riforme si possono fare, purché a pagarne il prezzo non siano mai anche coloro che le  partoriscono.

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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