SE C’E’ NAPOLITANO AL TELEFONO

Il presidente Giorgio Napolitano.

Seguo sempre con una certa attenzione il Fatto. E con particolare attenzione da quando il quotidiano di Padellaro e Travaglio si è lanciato nella campagna contro il presidente della Repubblica. L’attenzione si è presto mutata in ammirazione, cinica ammirazione professionale: perché la campagna, che ha portato copie e prestigio al giornale, è basata su poco. Diciamo, un venti per cento di sostanza e un ottanta per cento di allusioni e sottintesi  che esercitano però un forte richiamo su un’opinione pubblica esasperata dalla crisi e convinta, ahimé, che oltre la Casta ci attenda l’età dell’oro.

Il presidente Giorgio Napolitano.

Mi pare evidente, per tornare a Napolitano, che la Procura di Palermo ha agito nel rispetto del Codice penale attualmente in vigore. Ma anche che il problema sollevato dal Presidente della Repubblica con il conflitto di attribuzione esiste, eccome se esiste. E non occorre essere un costituzionalista per capirlo.

La storia è nota: intercettando i telefoni di Nicola Mancino, gli investigatori s’imbattono in 4 telefonate tra Mancino (ascoltato perché indagato per la presunta trattativa tra Stato e mafia) e Napolitano. Sono 4 telefonate, per un totale di 18 minuti di conversazione, su circa 10 mila telefonate intercettate. Il che già fa capire che la conversazione con Mancino non fosse proprio un’abitudine, per il Presidente. Ma non importa. I magistrati di Palermo hanno più volte dichiarato che in quelle conversazioni non c’è nulla di rilevante per le indagini. Però, prima di distruggerle, è necessaria un’udienza alla presenza di tutte le parti.

Sia i colleghi del Fatto sia i magistrati di Palermo sanno benissimo che questo è quanto prescrive il Codice. Ma che una simile procedura equivale a rendere pubblico il contenuto delle telefonate: le “parti”, cioè gli avvocati difensori degli indagati, ovviamente non esiteranno a sfruttare qualunque appiglio per proteggere gli interessi dei propri clienti. E un Napolitano che parla di nulla che c’entri con l’indagine (lo dicono, appunto, i magistrati di Palermo) ma che, per fare un’ipotesi ridicola, dicesse che il Quirinale è un palazzo brutto e scomodo, sarebbe più che sufficiente per scatenare un putiferio mediatico. Il Presidente della Repubblica non ha altro scudo, nell’esercizio delle proprie funzioni, che la convinzione generale, e la generale accettazione , della sua correttezza. Se le sue conversazioni personali vengono diffuse, e utilizzate a fini privati, quella convinzione può incrinarsi, con un grave danno per l’istituzione. E’ un’idea un po’ ipocrita? Forse. Ma che differenza fa?

Giorgio Napolitano con Silvio Berlusconi.

A questo punto i fan del Cavaliere possono obiettare: e perché Napolitano no e Berlusconi sì? Il paragone è possibile solo in linea di principio, e di un principio così sottile da diventare quasi impalpabile. Il Presidente della Repubblica (non il solo Napolitano ma qualunque Presidente) non ha un partito, quindi non ha rappresentanza parlamentare. Non ha potere, men che meno quello di cambiare le leggi. Berlusconi lo aveva, eccome. Al punto da spingere 314 parlamentari a dichiarare ufficialmente, con il voto in aula, di credere che Ruby fosse nipote di Mubarak; al punto da far scrivere leggi intere solo per risolvere alcuni dei propri problemi giudiziari. Al punto da promuovere una legge anti-intercettazioni che, se fosse passata, avrebbe lasciato tranquilli alla mangiatoia decine di ladroni nel frattempo scoperti.

Comunque sia, il 4 dicembre la Corte Costituzionale deciderà se e come colmare il “buco” eventualmente lasciato dall’articolo 90 (“Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”) dal testo della Carta costituzionale. Nel frattempo, resta il forte sospetto che tanta campagna serve soprattutto a incrementare le fortune politiche del Movimento 5 Stelle. Che non è, secondo me, “antipolitica” (categoria che non esiste in natura) e per ora nemmeno “altra politica” (la quantità di “altro” si giudica dall’azione politica, che per ora manca). Ma che per affermarsi ha bisogno che gli italiani credano che tutto e tutti sono corruzione, inganno, incapacità e disonestà. Senza eccezione e senza salvezza. Tranne, ovviamente, gli eroi al seguito di Grillo.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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