OBAMA, ROMNEY E IL VOTO DEI BIANCHI

Barack Obama e Mitt Romney.

Qualche settimana fa, il settimanale inglese «The Economist» pubblicò una vignetta in cui Obama e Romney, invece di correre verso la presidenza, cadevano uno sull’altro: l’uno avviluppato dalle liane della disoccupazione (163 mila nuovi posti creati in luglio, ma si prevede un tasso di senza lavoro dell’8,5% a fine anno; e nessun presidente è mai stato rieletto con la disoccupazione sopra l’8%), l’altro immobilizzato dalle spire di una lingua che ne fa un oratore modesto e un gaffeur di valore planetario.

Barack Obama e Mitt Romney.

Il vignettista aveva colto l’essenza di una campagna elettorale che, al momento, desta pochi entusiasmi ed è difficile da decifrare. Al primo problema porrà rimedio il tempo: passata l’estate si entrerà nel vivo e l’avvicinarsi del voto farà detonare le passioni. Ma l’interpretazione della sfida darà comunque filo da torcere anche ai migliori analisti. Tant’è vero che la Cnn, dopo aver a lungo studiato gli orientamenti Stato per Stato, ha concluso che l’ipotesi di un pareggio (269 collegi elettorali a testa) non è poi così peregrina. L’unico altro caso di pareggio si verificò nel 1824 e il Congresso decise poi di assegnare la Casa Bianca a John Quincy Adams.

Su una cosa tutti concordano: sarà una gara tesa e incerta fino all’ultimo voto. Il che, in assoluto, non è una buona notizia per Obama, che già deve preoccuparsi della migliore raccolta fondi di Romney, il cui comitato elettorale dispone di 101 milioni di dollari contro i 75 del presidente in carica. Ma per la vittoria di novembre saranno decisivi fattori meno evidenti ma più «pesanti».

Il primo è quello che va sotto l’etichetta «nuova contro vecchia America». Nel 2008 Obama fu spinto verso la Casa Bianca dal voto decisivo dei giovani e delle minoranze. Riuscirà il presidente, quattro anni e una durissima crisi economica dopo, a ripetere l’operazione? Gli afroamericani voteranno per lui, è scontato. Tra i latini è ancora in vantaggio su Romney, che però lavora sodo per recuperare. E i giovani? Molti dubitano che Obama riesca a mobilitarli come un tempo, almeno non nella misura necessaria.

A Romney, invece, deve riuscire un’altra operazione: farsi votare dagli elettori bianchi in misura superiore a quella ottenuta da John McCain nel 2008, che fu il 55,6%. Un elettorato da sempre largamente ostile a Obama ma decisivo solo se monopolizzato. Qui il discorso si fa più complesso: i potenziali elettori non bianchi sono, oggi, maggioranza negli Usa. Ma i bianchi sono in forte vantaggio tra gli elettori «in regola»: con la cittadinanza, con l’iscrizione alle liste elettorali, ecc. ecc. In certi casi il divario è enorme: solo 44 latini su 100 possono votare, contro 78 ogni 100 elettori bianchi. L’impresa quindi è difficile ma non impossibile, come le elezioni di medio termine, con relativa avanzata repubblicana, hanno dimostrato. Per centrare l’obiettivo, inoltre, il mormone Romney può usare anche il tema religioso, precluso invece al laico Obama, di recente schieratosi anche a favore delle nozze gay.

Gli instabili ingredienti della pozione presidenziale andranno poi dosati Stato per Stato. Ed è questo il secondo fattore decisivo. Quasi tutti gli esperti americani di flussi elettorali giudicano superata la mappa politica emersa dal voto del 2008. Romney, dicono, potrebbe vincere in New Hampshire, Iowa, Ohio, Florida, North Carolina e Nevada, Stati in cui quattro anni fa aveva prevalso Obama. Il quale, però, ha speranza di rovesciare il vecchio risultato in Indiana e Missouri.

Alchimie difficili da penetrare per chi non vive le diverse realtà economiche del grande Paese. Quanto conterà, nelle grandi e popolose periferie industriali, la copertura sanitaria garantita da Obama? Quanto peserà invece, nella classe media, il generale impoverimento e il ricordo della bolla immobiliare? Negli Stati centrali della «cotton belt» (la «cintura del cotone») chi voterà per l’Obama «abortista» che fa infuriare non solo le mille chiese protestanti ma anche la Chiesa cattolica?

Una certezza però c’è: ancor più che ai tempi della sfida Obama-McCain, gli americani saranno chiamati a una scelta radicale. I mondi di Obama e Romney non potrebbero essere più distanti l’uno dall’altro. Lo si nota già adesso, figuriamoci quando cominceranno a discutere di politica.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo dell’8 agosto 2012

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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