ARTICOLO 18, PIANO CON LA RETORICA

Il ministro Fornero e il premier Monti.

Un po’ prima che si scatenasse l’attuale buriana sull’articolo 18, avevo sottolineato in un pezzetto  che all’atto pratico le misure previste da quel famoso articolo (in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo, il lavoratore dev’essere reintegrato nel posto di lavoro e l’imprenditore condannato a un risarcimento non inferiore a 5 mensilità; in alternativa, lo stesso lavoratore può optare per il solo risarcimento del danno) non sono poi ‘sto granché e che in ogni caso ben pochi lavoratori sono stati finora reintegrati dal giudice: 300 su 31 mila cause avviate dalla Cgil. E di quei 300, solo 70 sono in effetti tornati al proprio posto, tutti gli altri hanno optato per il risarcimento e se ne sono andati.

Il ministro Fornero e il premier Monti.

Sono quindi piuttosto d’accordo che la “polpa” della riforma del lavoro, che Monti e la Fornero stanno cercando di varare, va cercata altrove. E che in diversi casi non sia polpa da poco. Sono meno d’accordo, invece, con chi vuole ridurre l’articolo 18 a un mero orpello, che allo stesso prezzo può essere tenuto o eliminato. Intanto, anche i simboli hanno la loro importanza. Nello specifico, l’articolo 18 è il simbolo (uno degli ultimi rimasti, forse) del potere contrattuale del sindacato. Potere che, non a caso, la riforma del lavoro si propone di ridurre o eliminare, introducendo appunto i “licenziamenti economici” a (quasi) totale discrezione del datore di lavoro più ancora che delle condizioni del mercato.

Parlar male del sindacato, del suo spirito di conservazione, dei suoi tanti iscritti pensionati,  è ormai diventato troppo facile. Ma siamo sicuri che affidarsi in toto allo spirito illuminato degli imprenditori sia una buona idea? In altre parole: siamo proprio sicuri che senza il sindacato di mezzo l’economia sarebbe tutta rose e fiori? In Italia abbiamo un caso piuttosto esemplare: la Fiat. Per mesi e mesi ci è stato spiegato che il problema stava nei contratti (troppo garantisti verso i lavoratori), nella produttività degli operai (scarsa), nelle rigidità sindacali. I contratti sono stati cambiati, la produttività è cresciuta, il ruolo dei sindacati diminuito. E che cos’è successo? Nel febbraio 2012 le immatricolazioni di auto Fiat (nei 27 Paesi Ue più i Paesi Efta) risultavano calate del 16,5% rispetto allo stesso mese del 2011. La crisi? Anche. Ma perché la Volkswagen, leader in Europa, ha perso solo il 2,1%? Non sarà che produce automobili migliori, a prescindere dagli operai?

Vogliamo parlare della delocalizzazione? Gli industriali che hanno portato gli stabilimenti all’estero li hanno portati in India, Cina, Tunisia, Bulgaria, Romania, Vietnam, Brasile. Paesi dove le retribuzioni sono molto più basse di quelle italiane, che già sono tra le più basse (o le più basse) d’Europa. E dove le condizioni di lavoro, e relative garanzie, sono di gran lunga inferiori alle nostre. Che cosa dovremmo fare per far tornare quelle imprese? Ridurci ancora i salari, fino ai livelli indiani o cinesi? Essendo questo impossibile, dobbiamo pensare che le imprese già delocalizzate non torneranno mai e che, anzi, altre ancora se ne andranno?

Infine: attenzione alla favola che dice “più facile sarà far uscire certi lavoratori, più facile sarà farne entrare di giovani”. Ok. diciamo che il mio giornale mi manda via con un “licenziamento economico” e assume mia figlia. Se succedesse, mia figlia fatalmente avrebbe uno stipendio molto inferiore al mio, che sono anziano (di azienda e di anagrafe) e al massimo della carriera. Buono per l’azienda ma pessimo per la nostra famiglia. E quante famiglie, in Italia, sono già ai limiti della resistenza? Li ho letti solo io i dati Isat e Confcommercio sul calo del risparmio delle famiglie? Risparmio che è stato l’unico, vero ammortizzatore per reggere il pso enorme della disoccupazione giovanile di questi anni?

Quindi, piano con la retorica sull’articolo 18. Nei Paesi davvero dinamici, la mobilità dei lavoratori c’è anche in entrata, non solo in uscita. Altrimenti non si chiama mobilità, si chiama disperazione.

 

 

 

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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