Nove bambini, tre donne e quattro uomini inseguiti casa per casa, stanza per stanza, e uccisi senza pietà. La strage compiuta dal sergente americano nel distretto di Panjwai, nella provincia afghana di Kandahar, è uno di quegli atti che la mente quasi rifiuta di considerare. Non per questo, però, bisogna abbandonarsi a oscure teorie di complotti e congiure. La ricostruzione ufficiale è anche la più credibile: il crollo nervoso di un soldato che, dopo aver superato diversi turni di servizio in Iraq, non ha retto all’impatto con l’Afghanistan.
Questo non significa giustificare né archiviare. I comandi militari Usa dovranno dare parecchie spiegazioni. Quella di Kandahar è una provincia relativamente “tranquilla” (sono caduti qui 8 dei 69 soldati Isaf uccisi nel 2012) ma il sergente che ha fatto strage ieri veniva dalla stessa base (la “Lewis McChord” nello stato di Washington) in cui si era raccolta la “squadra della morte” guidata dal sergente McGibbs, poi condannato all’ergastolo per aver ucciso a sangue freddo tre afghani (quelli accertati) tenendo poi come trofeo parti dei loro corpi. E ancora fresco è il ricordo dei Corani bruciati nella base di Bagram, un errore costato decine di vite.
Ora i talebani giurano vendetta, aprendo una stagione di forte rischio per tutti gli stranieri (soldati italiani compresi) in Afghanistan. Dopo quei poveri civili afghani, però, la vittima più evidente è l’immagine politica di Barack Obama. Il presidente tenta di proseguire il ritiro graduale delle truppe, cominciato nel luglio 2011 e destinato a culminare nel 2014, mentre l’opinione pubblica americana e frange consistenti dei democratici e dei repubblicani premono per un disimpegno immediato.
A qualunque velocità si voglia procedere, è indispensabile che il Governo e il nuovo esercito afghani diano l’impressione di controllare la situazione. E per farlo, Karzai e i suoi devono arrivare a un qualche armistizio con i talebani e con le forze che tengono viva la guerriglia. L’obiettivo non è certo vicino (il 2011, con 566 soldati caduti, e il 2010, con 711, sono stati i due anni più cruenti per le truppe straniere) e orrori come quello di Panjwai spingono nella direzione opposta. Ieri Ali Seraj, capo della Coalizione Nazionale per il Dialogo con le Tribù, un moderato, ha dovuto inchinarsi all’indignazione popolare e dire che “gli afghani possono sopportare i danni collaterali e i raid notturni, ma aborrono l’omicidio e vogliono per esso giustizia”.
Il presidente Karzai, fiutando l’aria, ha chiesto un pubblico processo per il sergente, sapendo benissimo che mai gli Usa hanno permesso una simile procedura, qualunque fosse la colpa. Resta però il fatto che, proprio mentre l’economia americana pare riprender quota, la politica estera rischia di dissipare il vantaggio che Obama ha finora accumulato, nella corsa alla rielezione, per le divisioni tra i repubblicani. L’avventura nucleare dell’Iran, con le minacce verso Israele e le relative preoccupazioni di 5,5 milioni di ebrei americani e di molti milioni di cristiani che appoggiano Israele. Il massacro dei siriani da parte di Assad e il confronto a distanza con Russia e Cina che non abbandonano il regime di Damasco. L’Iraq che rischia di deflagrare e l’Afghanistan che non trova pace. Su tutti i fronti Obama invita alla calma. Forse ha ragione ma non riesce a convincere un’opinione pubblica che oscilla tra il desiderio di portare “tutti i ragazzi a casa” e la voglia di sfoderare la grinta e l’imperio d’un tempo. Così l’ancora ignoto sergente di Panjwai ha ucciso 16 afghani ma ha sparato sulla Casa Bianca.
Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 13 marzo 2012.