Il caos in città come Kabul o Herat, tra le più “militarizzate” del mondo. Quasi 40 morti, tra i quali anche due soldati americani, in pochi giorni. Un’onda di protesta violenta che investe l’Afghanistan e si allarga alle megalopoli del Pakistan, da Islamabad a Quetta, da Peshawar a Karachi. Tutto questo per qualche copia del Corano bruciata per errore (o per timore che contenesse messaggi “segreti” ai detenuti) in una base militare, da soldati che probabilmente non sapevano nemmeno di che libro di trattasse? Anche se l’onnipotente presidente degli Usa, Barack Obama, si è piegato a scuse formali e clamorose?
Senza sottovalutare i sentimenti religiosi altrui, non è possibile. E vale a poco sottolineare che dietro le manifestazioni, i pugni levati al cielo, i volti contorti dalla rabbia, agiscono agitatori prezzolati dall’estremismo islamico o dai diversi interessi economico-criminali (il narcotraffico, per esempio) che ancora oggi sono decisivi in Afghanistan. Si sa, è così da dieci anni. Ed è stato così anche quando a beneficiarne eravamo “noi”, la coalizione che ha cacciato i talebani e poi ha spacciato un capo-fazione come il presidente Hamid Karzai per un leader amato dal suo popolo.
Molti stanno speculando sulla “rivolta del Corano”, ma tutti lo fanno sulla base di un’incontrovertibile realtà: la missione occidentale in Afghanistan (comunque costata carissima: 49 soldati italiani morti, 2.903 prendendo in considerazione tutte le nazioni impegnate, più molte migliaia di poliziotti, soldati e civili afghani) in dieci anni è riuscita a fare molte cose ma non a conquistare i cuori della popolazione. I cambiamenti e i miglioramenti (che pure ci sono: dai diritti delle donne alla scolarizzazione, dalla crescita economica alla libertà d’informazione e di parola) sono stati calati dall’alto, quasi più subiti che accettati dagli afghani.

Se questo è lo stato delle cose dopo oltre dieci anni di missione, è chiaro che qualcosa non ha funzionato.O, forse, non poteva funzionare fin dall’inizio. Sotto accusa finisce così l’idea cardine degli interventi militari del decennio 2000-2010, e cioè che fosse possibile invadere un Paese e trasformarlo radicalmente, anche se in senso democratico. Dopo quanto è successo in Iraq e in Afghanistan, la risposta è piuttosto chiara.