OBAMA E ROMNEY, BATTAGLIA SUL FISCO

Barack Obama, presidente degli Usa dal 2008.

La lunga corsa degli americani verso le elezioni presidenziali di novembre non è ancora entrata nel vivo, che che avverrà solo quando sarà identificato l’avversario di Barack Obama e gli elettori avranno il loro sospirato duello, l’Ok Corral che appartiene non solo alla politica ma anahce alla mitologia degli Usa. Ma non bisogna sottovalutare quanto avviene ora, perché finirà col delineare la cornice dell’ultimo e decisivo scontro.

Barack Obama, presidente degli Usa dal 2008.

La partita, è chiaro, si giocherà sull’economia. E dopo quattro anni di sofferenze e decisioni criticate, per Obama si sta aprendo uno spiraglio di luce. La disoccupazione è ancora alta, 8,3% (cioè 12,8 milioni di persone senza lavoro, delle quali 5,5 milioni disoccupati da oltre sei mesi; più  8,2 milioni di sotto-occupati), ma è in calo da sette mesi consecutivi. In gennaio, poi, c’è stato un piccolo boom del lavoro: 230 mila posti di lavoro in più, quasi uno shock. La Borsa è in ripresa (l’indice Dow Jones di Wall Street è tornato sui livelli pre-crisi) e si diffonde, per la prima volta da anni, un cauto ottimismo. Mario Monti, che sarà alla Casa Bianca giovedì, potrà valutarne la consistenza e l’entità.

E’ chiaro che da oggi a novembre molte cose possono ancora cambiare, in meglio o in peggio. Quindi, per Obama, sarà forse decisivo anche un altro, più imponderabile fattore: la coscienza che gli americani possono aver (o non aver) acquisito di quanto sia cambiato il mondo negli ultimi anni. E, per conseguenza, di quanto debba cambiare il loro atteggiamento. Se i cittadini Usa sono convinti di poter tornare all’epoca pre-Obama, quella delle guerre e dei debiti facili, perché tanto gli Usa sono una potenza e nessuno può dir loro di no, allora Obama è spacciato. Sarà inevitabilmente visto non come il Presidente di un’America più saggia e attenta, più prudente e intelligente, ma come il presidente di un’America minore, introversa, meno ambiziosa e orgogliosa, perdente.

Da questo punto di vista sarà indicativo l’esito di una battaglia che Obama e i democratici si apprestano a portare al Congresso, a partire da mercoledì quando il senatore Sheldon Whitehouse del Rhode Island chiederà di votare un Act (una legge, cioè) molto concretamente intitolato Paying a Fair Share (Pagare il giusto). Si tratta di una proposta di riforma del sistema fiscale ed è importante per almeno due ragioni.

Mitt Romney, favorito tra i repubblicani come sfidante di Obama.

La prima è più particolare e attiene direttamente alla corsa per la Casa Bianca.  Mitt Romney, il favorito tra i repubblicani, è un uomo molto ricco. Un miliardario. Nel 2010, con operazioni di Borsa basate soprattutto su hedge founds, ha guadagnato oltre 20 milioni di dollari, sui quali ha pagato tasse pari solo al 13,9%. Questo succede perché negli Usa le rendite finanziarie sono tassate solo al 15%, e Romney ha anche potuto godere di ulteriori piccole esenzioni, scendendo appunto al 13,9%. Purtroppo la tassazione sui redditi da lavoro dipendente è ben diversa, mediamente sul 30% ma con possibilità di arrivare anche al 35%. Una sperequazione che salta agli occhi ed è ovviamente indigesta a molti. Così i democratici, convinti che alla fine lo sfidante di Obama sarà lui, puntano a metterlo in difficoltà agli occhi di milioni di tax payers che guadagnano meno ma pagano in proporzione molto di più.

Negli Usa tutto questo, e molto altro, passa sotto la voce Buffett Rule. Così ha definito Obama il paradosso enunciato da Warren Buffett, il famosissimo e ricchissimo finanziere, che in un pubblico dibattito Tv disse di vergognarsi del fatto di pagare, in proporzione, meno tasse della propria segretaria. Debbie Bosanek, la segretaria in questione, in questi mesi è diventata una celebrità e ha assistito da ospite di Michelle Obama al recente discorso sullo stato dell’Unione in cui Barack Obama, guarda caso, è tornato a riproporre la Buffett Rule come la stella polare della riforma del sistema fiscale.

Così il senatore Whitehouse (bel cognome: Casa Bianca) sta per proporre al Congresso di varare una legge in base alla quale chi guadagna oltre 1 milione di dollari l’anno venga gradualmente portato verso l’aliquota del 30%, fatta salva la deducibilità delle donazioni benefiche. I Repubblicani ovviamente sono contrari e hanno tutti i numeri per bloccare la proposta al Congresso. Ma la loro controproposta è debole: prevede la possibilità che i ricchi decidano spontaneamente, ma senza alcun obbligo, di alzarsi l’aliquota per contribuire al bilancio dello Stato. Cosa a cui nessuno, o quasi, è disposto a credere.

 A Obama e ai democratici in fondo importa poco che la legge non sia approvata dal Congresso. Perché potranno comunque ripetere ai cittadini, da qui a novembre, che loro sono i difensori della classe media e che i Repubblicani sono i protettori dei super-ricchi egoisti. Al di là della retorica elettorale, però, il dibattito sulla Buffett Rule mostrerà se gli americani credono ancora all’idea tradizionale che il benessere viene accumulato dall’intraprendenza dei ricchi ma poi, inevitabilmente, finisce col distribuirsi verso il basso; oppure  hanno metabolizzato in questi anni l’idea che l’intervento dello Stato non è peccato e che, anzi, è necessario per riequilibrare gli scompensi del sistema.

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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