A fine 2011 la Cina ha compiuto una svolta storica: la popolazione che vive in città è diventata più ampia di quella che vive in campagna. Da anni i demografi prevedevano questo esito, che nondimeno resta impressionante: più di metà dei cinesi (che sono 1 miliardo e 350 milioni) si è urbanizzato, in un Paese in cui ancora nel 1980 più dell’80% delle persone viveva in campagna.
Tutto questo significa che ciò che avvenne in Europa in più di un secolo, in Cina si è prodotto in vent’anni. E non si può nemmeno dire che le autorità, sempre parche nel promuovere la libertà di movimento dei cittadini, fossero d’accordo. Certo, la politica di riforme economiche inaugurata da Deng Xiao Ping era inevitabilmente destinata a favorire quel processo. Ma per anni i governi cinesi hanno cercato di far quadrare il. cerchio con l’idea che gli operai “entrassero nelle fabbriche ma non nelle città”.
Da qui la politica delle “zone economiche speciali” (vedi Guangdong, con vista su Hong Kong) e poi delle città ad esse collegate e a loro volta disposte in livelli successivi: Shenzhen and Guangzhou al primo; Suzhou, Tianjin, Shenyang, Chengdu, Dalian e Chongqing al secondo; Ningbo Fuzhou, Wuxi e Harbin al terzo. Questo però non ha impedito il travaso verso le città di grandi fasce di popolazione, attratte dalla prospettiva di un miglioramento economico e dal crescente bisogno di forza lavoro da parte di una macchina economica che si era intanto sviluppata soprattutto nelle città.
A quanto pare, però, non è finita qui. Entro il 2040, prevedono i demografi e gli economisti, la percentuale di cinesi che vivranno in centro urbani salirà al 67%, pari a 970 milioni di persone. Il che significa che, nel giro di una sola generazione, i dirigenti della Cina dovranno trovare modo di alloggiare e dotare di servizi decenti tante persone quante ne vivono complessivamente nelle aree urbane degli Usa (260 milioni) e del Giappone (85 milioni), più un altro 15 milioni.