PAKISTAN, TUTTI CONTRO TUTTI

Il premier Gilani con il generale Kayani.

Musharraf torna o non torna? E se lui torna, chi parte? Come l’ombra di Banquo perseguita Macbeth, così le intenzioni dell’ex presidente Pervez Musharraf, salito al potere nel 1999 con un golpe militare e costretto alle dimissioni nel 2008, fanno traballare il già precario assetto istituzionale del Pakistan.

Il premier Gilani con il generale Kayani.

L’acuirsi della crisi è di queste ultime settimane, ma la sua radice è antica. E riguarda il mai risolto rapporto tra potere militare e potere politico. I generale pakistani si sono abituati a gestire il Paese e, soprattutto, a determinarne le sorti dietro le quinte, in barba alle decisioni della politica. Il regime di Musharraf è stato la loro apoteosi: ilò presidente era un ex generale lui stesso, e aveva mantenuto la carica di comandante in capo delle forze armate. il che voleva dire: le forze armate al vertice del Paese.

Una rendita di posizione fantastica, che consentiva le più spericolate acrobazie. Così il Pakistan, che ha il 10% della popolazione privo di accesso all’acqua potabile, il 55% privo di servizi igienici normali e quasi il 50% incapace di leggere e scrivere, spende il 3% del Pil per la Difesa (più che per l’educazione o la salute) e ha la bomba atomica. Ai tempi dei talebani, il Pakistan fu l’unico Paese, insieme con l’Arabia Saudita, a riconoscerne ufficialmente il regime e a collaborare attivamente con esso. Sempre a proposito di bomba atomica: furono gli scienziati militari pakistani a collaborare con la Corea del Nord per aiutarla ad avere un analogo ordigno. E così via.

La caduta di Musharraf ha significato la fine della pacchia, evento a cui i generali non si sono mai rassegnati. Formalmente ossequiosi, non hanno mai davvero accettato il nuovo Governo. E questi, con le sue incertezze, ha fatto molto per agevolare le loro trame. Non ha certo giovato, in questo senso, la crisi dei rapporti tra il Governo del Pakistan e gli Usa, con le ripicche (la Cia conduceva operazioni segrete in territorio pakistano, le autorità locali chiudevano basi americane, la Casa Bianca tagliava gli aiuti, e così via) inevitabili tra chi si sente padrone del mondo (e combatte l’estremismo islamico anche a vantaggio del Pakistan) e chi vuole affermare l’orgoglio nazionale.

Benazir Bhutto pochi giorni prima di essere uccisa.

Comunque sia, proprio sull’asse Islamabad-Washington è partita la scintilla che rischia di far saltare tutto. Nel maggio 2011, subito dopo l’uccisione di Osama Bin Laden, il presidente Asif Alì Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, fece pervenire all’ammiraglio Mike Mullen, capo delle forze armate americane, un Memorandum in cui lo pregava di intervenire contro la prospettiva di un colpo di Stato militare in Pakistan. Guarda caso, il rapporto segreto fu divulgato poco dopo (lo pubblicò la rivista Foreign Policy) e mise da subito in grave imbarazzo il Governo del Pakistan. D’altra parte, il presidente Zardari chiedeva assai impropriamente a Mullen di intervenire sul suo omologo pakistano, il generale Ashfaq Pervez Kayani, per impedirgli di tentare il colpo di Stato e accusava i generali di simpatizzare per Bin Laden e per l’estremismo islamico.

Mullen disse di aver cestinato il rapporto, considerandolo un falso. E non è un buon segno, perché il rapporto gli era stato consegnato dall’ambasciatore pakistano a Washington, mica da uno qualunque. Come dire: mi fido più dei colleghi militari che del Presidente. E da lì è partito un pasticcio pericoloso. I generali pakistani sono insorti e hanno denunciato alla Corte suprema il documento, come prova di un complotto contro le forze armate. Il premier Gilani ha attaccato il comandante dell’esercito, generale Ashfaq Pervez Kayani, e il capo dei servizi segreti, generale Ahmed Shuja Pasha e li ha accusati di aver violato la Costituzione. Poi, non contento, ha silurato Khalid Naeem Lodhi, segretario alla Difesa e fedelissimo di Kayani.

Come se non bastasse è esplosa, come una bomba a orologeria, la questione Musharraf. L’ex presidente, da anni in esilio tra Londra e Dhubai, ha espresso l’intenzione di tornare in patria per partecipare alle prossime elezioni. In Pakistan, però, lo attende un mandato d’arresto: è accusato di non aver protetto la leader dell’opposizione Benazir Bhutto, assassinata durante un comizio elettorale nel 2007. L’accusa dev’essere provata ma è quasi inconcepibile un processo in cui la “parte civile” sarebbe l’attuale presidente Zardari, vedovo appunto della Bhutto.

Per di più, lo stesso Zardari è coinvolto in una storia di corruzione da cui, per ora, è protetto da un’amnistia decretata nel 2007 proprio da Musharraf. Amnistia che peraltro fu dichiarata incostituzionale e revocata nel 2009 dalla Corte Suprema, che chiese anche la riapertura di tutti i casi. Gilani non vuole farlo ed è ora accusato di “disprezzo per la Corte”. Paradossalmente, quindi, potrebbe persino darsi una situazione in cui Musharraf torna in Pakistan e l’unico a NON essere arrestato è proprio lui. Certo pare difficile che il Pakistan possa andare avanti a lungo così.

 

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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