PAKISTAN E USA, IL GIOCO DELLE PARTI

“Un tragico incidente”. Questa è la spiegazione che generali, ambasciatori e politici danno dell’operazione militare Isaf (International Security Assistance Forces, l’operazione Nato contro i talebani afghani) che ieri ha colpito una guarnigione pakistana in territorio pakistano, uccidendo 25 soldati pakistani (tra i quali due ufficiali) e ferendone altri 15. Per reazione, il Governo del Pakistan ha convocato l’ambasciatore americano a Islamabad, Cameron Munter, e ha bloccato la strada del Kyber Pass ai convogli con i rifornimenti Isaf. Non è poco, visto che da lì passa metà del materiale necessario alla missione internazionale in Afghanistan. E poiché l’Italia è membro attivo della missione Isaf, oltre che della Nato, la cosa ci riguarda.

Una guardia di frontiera del Pakistan.

Se si trattasse davvero di un “incidente” sarebbe opportuno costruirsi un bunker. Ma è una spiegazione assurda: il Pakistan è un Paese alleato dell’Occidente, collabora con la missione Isaf, le sue basi (soprattutto se, come quella colpita ieri a Salala, sono disposte lungo il confine con l’Afghanistan) sono ben note alla Nato. Gli Usa, inoltre, oltre a un sacco di spie sul terreno, hanno anche ottimi satelliti che indagano dall’alto. In ogni caso, anche da quelle parti c’è una bella differenza tra una caserma dell’esercito e una base di talebani. Come diavolo può verificarsi un fatto simile?

L’unica spiegazione ragionevole è che non si tratti di un “incidente” ma di un’azione deliberata. In una lunga serie, peraltro, di azioni simili che vanno avanti da almeno un paio d’anni e che hanno fatto molti morti tra i civili e i militari del Pakistan. Prima di quelli di Salala, solo dieci giorni fa, altre due guardie di frontiera, più o meno nella stessa zona.

Bisogna dunque chiedersi a quale scopo, e contro chi, sono intraprese queste azioni. La motivazione ufficiale è che il confine tra Pakistan e Afghanistan è troppo permeabile ai movimenti e ai traffici della guerriglia afghana. Talebani, miliziani di varia origine e destinazione, contrabbandieri e spacciatori di droga vanno avanti e indietro a piacimento, minando così qualunque progresso delle forze militari occidentali in Afghanistan e ogni tentativo del Governo di Kabul di dare un minimo di unità e coesione al Paese. Aver trovato Bin Laden comodamente insediato in Pakistan, in una villa a pochi metri da un’accademia militare pakistana, in maggio, non ha certo migliorato l’umore degli americani.

Ma il confine tra Pakistan e Afghanistan è lunghissimo, scorre su montagne impervie attraversate da migliaia di sentieri e passaggi. Impensabile controllarlo senza l’aiuto del Pakistan, soprattutto controllarlo affidandosi a incursioni aeree come quella contro Salala (elicotteri da combattimento partiti da Kabul) o ai mitragliamenti dei droni americani (diretti dalla base di Shamsi, in Pakistan, altro nervo scoperto nei rapporti con gli Usa). E di certo ammazzarne i soldati non invoglia l’esercito pakistano a cooperare.

Asif Ali Zardari, presidente del Pakistan.

La sensazione, dunque, è che queste azioni intimidatorie servano soprattutto a tenere a bada quei settori delle forze armate e dei servizi segreti (Isi) che non solo mal digeriscono l’alleanza con gli Usa ma hanno storicamente una certa tendenza a collaborare, se non con i talebani, almeno con i gruppi dell’estremismo nazional-islamista. Qualche settimana fa l’ambasciatore pakistano a Washington, Husain Haqqani, è stato richiamato in patria (e quello nuovo, Sherry Rehman, non si è ancora insediato) perché coinvolto in una serie di rivelazioni che riguardano Asif Ali Zardari, presidente del Pakistan. Zardari avrebbe chiesto agli Usa di vigilare su un possibile colpo di Stato da parte dei militari.

La democrazia pakistana è fragile e costretta a negoziare ogni giorno la propria sopravvivenza con il fronte islamista, come dimostra per esempio l’atteggiamento ambiguo verso le minoranze, in primo luogo quella cristiana. Nel rapporto teso con gli Usa si può intravvedere un po’ di gioco delle parti: gli americani si incaricano di produrre “incidenti” come quello di Salala (e come la serie infinita di operazioni della Cia in territorio pakistano, anch’esse fonte di tensioni), il Governo di Islamabad finge di indignarsi e di prendere provvedimenti. Intanto chi deve capire capisce e i militari (forse) golpisti sono costretti a meditare se tenersi Zardari, che più o meno garantisce un certo equilibrio di democrazia, nazionalismo, islamismo, militarismo, o tentare l’avventura di un regime sgradito agli Usa ancora tanto impegnati in Afghanistan.

Quadro che potrebbe cambiare il giorno in cui le truppe americane lasciassero definitivamente Kabul. Il che è una minaccia anche per Zardari e la democrazia pakistana: per dieci anni agli Usa e al mondo è andato bene il generale Musharraf , e non è che al Pakistan manchino i generali…

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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