GHEDDAFI, MORTE IN TV COME SADDAM

Quel che una volta era toccare con dito, oggi è vedere in immagine. Così, tutti gli eventi straordinari, rivoluzioni comprese, diventano veri solo quando riescono a produrre un’icona. Da questo punto di vista l’immagine perfetta del travagliato parto della nuova Libia sta in quelle fotografie, prontamente diffuse dalle Tv satellitari arabe, del cadavere ancora caldo di Muhammar Gheddafi, insanguinato ma non sfigurato, eppure crudelmente esposto alle invettive e agli sberleffi della folla.

Il cadavere di Muhammar Gheddafi nelle immagini trasmesse da Al Jazeera.

Fotografie tremende in sé. Tanto disumana era l’idea di quel corpo inerme sballottato qua e là, che per assurdo meno impressione hanno fatto le sequenze, trasmesse poco dopo, di un Gheddafi ancora vivo, spintonato verso un camioncino e prossimo, evidentemente, all’esecuzione sommaria. Altro che la storiella del giovane Mohamed al-Bibi, vent’anni appena, che avrebbe scovato e ucciso il Rais in fuga per poi sventolare orgoglioso la sua pistola d’oro, forse improvvisata per i cronisti di al Jazeera e Al Arabiya, non nuovi a voli dell’immaginazione.

Il Colonnello ha concluso ieri la sua fuga in un tubo di cemento nella natìa Sirte (e su cui una mano ha tracciato la scritta “Qui stava Gheddafi. Dio è grande”) proprio come un altro dittatore del Medio Oriente, Saddam Hussein, era stato catturato il 14 dicembre 2003 dagli americani mentre stava acquattato in una buca nella Tikrit dove aveva cominciato la sua avventura. L’uno e l’altro hanno affrontato la sfida finale prima minacciando repressioni che non erano più in grado di organizzare, poi millantando forze che non avevano, infine scappando come belve in trappola.

E prima della fine fisica, lo stesso processo di distruzione in immagine. Le statue abbattute nelle piazze di Baghdad e di Tripoli. Le dimore sontuose invase e ritualmente “profanate” da cittadini ribelli e non più schiavi. I simboli del potere assoluto (le piscine nel deserto, i gioielli in mezzo alla povertà, le armi sulle masse degli indifesi) forse trafugati ma soprattutto disprezzati, calpestati, distrutti.

Se da un lato il cambio di regime, e più ancora l’inizio di una storia collettiva nuova, sente il bisogno di una certificazione crudele e sanguinaria come il racconto per immagini dello scempio di una persona morta, dall’altro è possibile rinvenire in questo una violenta pena del contrappasso. Perché questi dittatori, Gheddafi di nuovo come Saddam Hussein, avevano fatto del culto dell’immagine, la propria, una delle caratteristiche della loro dittatura.

Baghdad, ai tempi del tiranno, era come un gigantesco album di fotografie. Saddam col fucile, con i bambini, col cappello, vestito alla moda araba, a cavallo, in automobile… Gheddafi, più moderno e anche più pronto a copiare dall’Occidente, aveva un talento innato per l’apparizione pubblica. La tenda, le tuniche, gli occhiali a specchio, le amazzoni come scorta, le tirate per mettere in imbarazzo questo o quel Paese ospitante, le uniformi, le fotografie appese agli abiti. Gli piaceva farsi notare.

Sarà un caso ma uomini non meno attaccati al potere di loro, per esempio Mubarak in Egitto (presidente per trent’anni) o Ben Alì in Tunisia (23 anni al comando), ma molto meno dediti all’auto-pubblicità, sono stati cacciati con meno crudeltà. Come se il rovesciamento delle sorti politiche e personali fosse influenzato, nelle sue modalità, non solo dalla durezza della tirannia ma anche dall’onnipresenza invasiva e ossessionante prima inflitta dal tiranno alle sue genti.

Di Saddam è rimasta quella botola aperta sotto il corpo appeso. Di Gheddafi quel tubo di cemento affondato nella sabbia, e un volto insanguinato. In noi, la sensazione che violenza chiama violenza. Appunto.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 21 ottobre 2011

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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