Il 7 ottobre la guerra in Afghanistan compie esattamente dieci anni. Chi era in Afghanistan nell’ottobre del 2001, come me, non ha mai dimenticato la sensazione di sorpresa, per non dire di incredulità, nel vedere le truppe Usa e le forze dell’Alleanza del Nord procedere verso Kabul quasi di corsa e travolgere con minimo sforzo i temuti caposaldi della resistenza talebana. Lo stesso stupore con cui, oggi, dieci anni dopo, leggiamo i dati di quella che pare un’altrettanto veloce ammissione di sconfitta.
Nei primi otto mesi del 2011, secondo le Nazioni Unite, il numero degli “incidenti violenti” in Afghanistan è arrivato a quota 2.108, con un aumento del 39% rispetto al 2010. Gli attacchi kamikaze della guerriglia sono diventati ancor più sofisticati e violenti e sono almeno 3 al mese, con un incremento del 50% sul 2010. Il narcotraffico è più vivo che mai: a Helmand sono stati scoperti e distrutti tre laboratori per la produzione di eroina, il colpo più grosso in dieci anni. Ma, appunto, in dieci anni.
E poi, naturalmente, il presidente Karzai, sempre più discusso e sempre più assediato. I 450 mila profughi interni segnalati da Amnesty International e le scuole chiuse (almeno un centinaio nel 2010) perché distrutte o minacciate dai talebani. E i caduti: 1.462 civili uccisi nei primi sei mesi del 2011 (altro record assoluto), i 2.753 soldati occidentali (tra i quali 1.801 americani e 44 italiani) caduti in servizio, le migliaia di soldati e poliziotti afghani uccisi mentre stavano al loro fianco. Il tutto mentre il presidente Obama riporta a casa i suoi soldati e tutti scrutano con ansia l’orizzonte del 2014, quando le truppe Nato e quelle Usa passeranno la responsabilità alle forze di sicurezza afghane.
Tinte fosche, dunque. Dobbiamo però evitare di essere troppo pessimisti oggi proprio perché fummo troppo ottimisti dieci anni fa. Nel 2001 la guerra in Afghanistan era largamente inevitabile. Il Paese dei talebani era diventato il santuario dell’organizzazione terroristica più potente e spietata del mondo. Al Qaeda vi trovava rifugio e protezione, oltre alla possibilità di addestrare legioni sempre nuove di kamikaze e assassini. Un simile connubio, in ogni caso, oggi non è più possibile.
Di più. Dieci anni fa l’Afghanistan era riconosciuto e appoggiato da due soli Paesi: Pakistan e Arabia Saudita. Fungeva, il regime talebano, anche da terminale dei finanziamenti e degli intrighi degli ambienti più reazionari e più collusi con l’estremismo islamico di quei due Paesi, che lo usavano per ricattare gli alleati e colpire gli avversari. Per certi versi, e soprattutto per quanto riguarda il Pakistan, il problema non è ancora risolto: certe frange dei servizi segreti pakistani e certi movimenti politico-militari tuttora contribuiscono alla violenza e all’instabilità di cui soffre l’Afghanistan.
Ma anche per loro è sempre più complicato e il prezzo da pagare, in termini di relazioni internazionali, sempre più alto. Il Pakistan è passato da un presidenzialismo autoritario a una pur traballante democrazia, sconta la diffidenza degli Usa e vede l’India estendere la propria influenza verso Kabul. Dall’esterno, inoltre, il contagio violento penetra all’interno. L’Arabia Saudita fatica a controllare, anche con le armi, le pulsioni democratiche che agitano il Medio Oriente e non può più permettersi certe ambiguità.
Non tutto è perduto, dunque. Nessuno, a parte i retori peggiori, aveva mai detto che sarebbe stato facile riscattare un Paese sprofondato in vent’anni consecutivi di guerre e distruzioni. L’Afghanistan di allora, per chi avesse perso la memoria, era molto, troppo simile alla Somalia di ora. Ci sono lezioni da apprendere, ovviamente. I militari dicono che è vano occupare un Paese senza controllarne il territorio, e hanno ragione. Le Ong e le organizzazioni internazionali sottolineano che non si è data sufficiente risposta alle attese della popolazione, ed è un’altra verità. E la politica? Per prima quella americana, ha imparato a proprie spese che i confini, le razze, le etnie, le lingue, le culture e le fedi sono materia delicata, da maneggiare con cura. E che certe eredità, anche se macchiate di sangue, sono dure da cancellare.
Pubblicato su Avvenire del 6 ottobre 2011