PECHINO – La Città è Proibita ma non più di tanto. Il gioiello di Pechino, per cinque secoli residenza degli imperatori della Cina, fu trasformato in Palazzo Museo già nel 1925, dopo la prima fuga dell’ultimo imperatore Puyi (deposto solo nel 1945). Il primo vice-direttore di allora, Ma Heng, stabilì una serie di regole per la registrazione e la conservazione dei reperti che fino a oggi viene fedelmente applicata nelle grandi istituzioni culturali come nei più piccoli musei di provincia. Negli ultimi anni, però, le mura della Città e la sua organizzazione come Museo sono state traforate da raffiche di scandali.
Il turista, anche quello più resistente, può godere di soli 27 mila metri quadrati sui 155 mila della Città Proibita. Inoltre, nel sottosuolo dell’ala Ovest è stato scavato tra il 1987 e il 1997 un deposito di 22 mila metri quadrati (pareti di cemento armato, stanze impermeabilizzate, impianti antincendio e temperatura controllata tra i 14,5 e i 16,5 gradi) in cui è conservato il 99% del patrimonio archeologico e culturale del Museo.
A dispetto di tutto questo, negli ultimi anni gli “incidenti” sono diventati innumerevoli e le denunce, come spesso accade nella Cina di oggi, sono finite sul Web. Il più clamoroso (sia come incidente sia come denuncia) è stato quello del Piatto Celadon della dinastia Song (960-1279), pezzo importante del tesoro archeologico nazionale. Il 4 di luglio un giovane ricercatore esegue un testo sul piatto e lo fa a pezzi: sei, per la precisione. Per i cinesi, come fare un buco nella Gioconda. Non una parola dal Museo ma un blogger con lo pseudonimo di Long can (si pensa un dipendente del Museo stesso) mette tutto su internet. Scandalo, indignazione: risulta tutto vero. Ma Long can non desiste, anzi: parla in rete di porcellane Ming rovinate da impiegati distratti, reperti buttati nell’immondizia per errore, statue scheggiate e così via.
Il Museo un po’ smentisce e un po’ giustifica. Arriva allora lo scandalo fiscale ed è un altro blogger a suonare la campana. Nel 2009 un gruppo di impiegati del Museo avrebbe intascato l’incasso della vendita dei biglietti per la Città Proibita, per finire smascherati da un ricattatore che avrebbero poi tacitato sborsando 15 mila dollari. Un’altra truffa coi biglietti sarebbe avvenuta di recente: un altro blogger ha messo in rete le foto dei biglietti di una mostra privi del bollo fiscale.
E così, con il classico tam tam della rete, sono pian piano emersi episodi grotteschi: un club per ricconi in un’ala del palazzo imperiale (altra denuncia sul web, questa volta da parte di Rui Chenggang, volto noto della Tv di Stato), cinque preziose lettere della dinastia Song comprate all’asta e qualche anno dopo privatamente rivendute al triplo del prezzo… Fino all’ultima prodezza: 100 libri antichi (dei 400 mila della Città Proibita) spariti nel nulla.
Quanto avviene intorno alla Città Proibita e ai suoi tesori è un esempio forse minore, ma non secondario, di un contrasto sempre più frequente nella nuova superpotenza asiatica: quello tra le vecchie abitudini della burocrazia, dure a morire, e i germogli di una nuova consapevolezza civile che si diffonde tra i cittadini. Non gli è estraneo l’orgoglio nazionalistico che i “nuovi cinesi” provano per l’attuale status del Paese, e che nel racconto collettivo (a dispetto dell’iconografia di maniera) viene radicato assai più nel passato remoto imperiale che non nel passato prossimo maoista.