Il debito, il debito, il debito! Di colpo, anche Paesi dissipatori come l’Italia hanno scoperto che coprirsi di debiti non è la soluzione ma, al contrario, un grosso problema. Che si ripercuote, peraltro, sulle generazioni future, nel caso specifico quella attuale, che ha ereditato il peso dell’indebitamento allegramente cominciato nell’era del glorioso Caf (Craxi, Andreotti, Forlani).
All’eccesso di debiti si attribuisce, ora, il protrarsi di una crescita economica troppo debole. In effetti, se si è costretti a pagare una montagna di debiti diventa difficile o impossibile fare investimenti produttivi. Ma senza fatturato e guadagno, cioè senza crescita, è impossibile pagare i debiti. Un circolo vizioso che le famiglie conoscono bene (come fai a pagare il dentista se hai un sacco di rate dell’automobile da saldare?) ma che gli economisti a quanto pare scoprono con una certa sorpresa.
Gli Stati Uniti sono il Paese con il maggiore debito pubblico del mondo, circa 14 trilioni (milioni di miliardi), pari al 95% del Prodotto interno lordo. Adesso tutti se la prendono con Obama ma la vera fabbrica del debito è stata l’era di George Bush: il debitp pubblico americano, infatti, crebbe del 50% tra il 2000 e il 2007, cioè proprio durante i suoi due mandati presidenziali. Ma non è questo, ora, l’importante. Da notare piuttosto questo: l’anno scorso (!), gli analisti della Federal Reserve (la Banca centrale americana) prevedevano per il 2011 una crescita del 4%. Piano piano sono arrivati a ridurla fino al 2,5%. Stessa storia per i loro colleghi della Bank of England: previsioni al 4% per il 2011 diventate 2% negli ultimi mesi. Mentre gli economisti delle banche private inglesi prevedono addirittura l’1,5%.
A dispetto delle cifre assolute, gli Stati Uniti sono l’unico Paese che finora è riuscito nell’impresa di limare la percentuale di debito pubblico sul Prodotto interno lordo. E lo stesso hanno fatto i cittadini americani: nel 2007, l’anno della catastrofe, l’americano medio aveva debiti pari al 127% del suo reddito annuale, nel 2010 “solo” il 112%. Ma non basta, come sappiamo. Obama e il Congresso hanno dovuto patteggiare altri tagli. I Paesi che sono entrati nella crisi globale con un basso livello di debito pubblico, soprattutto Germania e Canada, sono anche quelli che sono tornati più in fretta a un accettabile livello di crescita economica.
Al contrario, Italia, Francia e Spagna si sono infilati nella crisi con un alto livello di debito pubblico (il 119% del Pil per l’Italia nel 2010, il più alto nella zona Euro dopo quello della Grecia; il 61% per la Spagna; l’ 81,7% per la Francia) e non a caso sono i Paesi oggi più sofferenti. Per qualche tempo Tremonti e il Governo intero ci hanno raccontato la favoletta che il debito pubblico non è tutto, conta anche quello privato. Ed essendo l’Italia un Paese di forti risparmiatori (al contrario per esempio della Spagna,dove il debito dei privati cittadini è altissimo, e della Francia dove è comunque più alto che da noi), come al solito ci sentivamo i più furbi di tutti.
Purtroppo, e in modo del tutto prevedibile, è successo questo: essendo il debito pubblico italiano altissimo, lo Stato ha potuto “coprire” solo in parte i costi della crisi (taglio dei servizi, aumento del costo della vita, disoccupazione, ecc. ecc.), che si sono così scaricati sui conti dei privati cittadini. Di fatto, il risparmio privato è stato speso per difendere il tenore di vita delle famiglie e, attraverso l’inasprimento fiscale, il taglio delle agevolazioni e il rincaro delle tariffe, per tenere in piedi lo Stato. E infatti ci siamo ritrovati a farci dettare la politica finanziaria dalle istituzioni internazionali, alla faccia dei sofismi di Tremonti & Company e della leggenda che “siamo usciti dalla crisi meglio degli altri”.
Comunque sia, il McKinsey Global Institute, grande società di consulenze internazionali, in uno studio del 2010 ha calcolato che per arrivare a una riduzione del 25% dell’incidenza del debito sul Pil, in presenza di una serie politica di riduzione della spesa, occorrono 7 anni di sacrifici. I classici sette anni di vacche magre.